
Accettavo i malcelati scherni, non era quella la sofferenza vera. D’altronde, con quali discorsi illustrare la ragione di questa unione coniugale che ancora dura, ed è, in qualche modo, felice; come significare che essendomi stata negata per divino decreto la maternità, cerco la giovinezza che conserva ancora un’ombra dell’infanzia?
Perché, se tanto ho desiderato l’esser madre lo devo al periodo mio primo e più felice, con le mie sorelle e i miei fratelli, quando la gioia non era tanto tessuta dagli scherzi, le risa o i giochi, ma dall’essere insieme a qualcuno di simile; una banda di puri contro un mondo sciocco, intenti a decifrar segreti, a cogliere luci. Poi dopo si fa parte per sé stessi, si genera e si edifica in un mondo piatto e sottile come una moneta, del quale si sa tutto. E la gioia dell’infanzia non l’ho potuta ricreare, se non con figli altrui, dietro barriere di convenienza e necessario distacco.
Se ho dipinto molti ritratti di bambini, che si giudicano in coro eccellentemente riusciti, se molte lodi e molti denari ne ho tratto, e dunque invidie e rivalità, e se tutto questo è noto a tutti, tutti altresì ignorano con quale disperata nostalgia affrontassi la tela e il visetto riottoso innanzi a me; e quanto tremasse la mia voce nel narrare le fiabe che erano state narrate a me e ai miei fratelli, per fermare la creatura che non voleva star ferma neppure un attimo. E come per un attimo, uno solo, cadessi in quegli occhi, ora vispi, ora puri, ora divertiti, per afferrare il baluginio del tempo primo, tornando quindi a me stessa senza avere rinvenuto altro che poche pennellate –giuste, appropriate, ma estranee.
La mia arte si è vendicata. Troppo tardi ho capito che creare quadri è pari al partorire, entrambi un dono divino che sottrae territori al nulla; che anch’io ero stata benedetta, in diverso modo. L’ombra ha dunque iniziato a scendere sui miei occhi già da qualche anno, rendendomi impossibile tornare a dipingere. Sento però la luce, in questa bella casa che mio marito comprò nel quartiere di Seralcadio, il Capo di Palermo. Anche se non posso più vedere il mondo materiale, la luce batte e rivela simmetrie sinora nascoste. Non ho avuto figli perché ho troppo amato l’infanzia, troppo trascurando arte e mariti, troppo giudicando dall’alto di una purezza diventata superbia; muoio in questo quartiere che reca il nome, storpiato, di un arabo. Un lontano emiro: così si vendica il fato della gloria che fondò la mia famiglia, quando derivò il proprio nome dalla vittoria sugli Arabi a Costantinopoli, procacciata da un mio lontano avo col fuoco greco –Anguis sola fecit victoriam. Così ora sono sola, niente serpe, niente vittoria. Resta questo mare che fa l’aria pesante, alita salsedine dalle finestre spalancate acciocchè prenda un po’ di sole questa vecchia sola che sono diventata. Il mare che mi ha recato in Spagna e mi ha recato indietro, il mare che diede la morte al mio primo marito e mi ha donato il secondo, che collega ogni cosa, tutto ha portato e tutto adesso, giustamente, toglie.
I bambini del quartiere giocano nella piazza, sento i loro scherzi e grida. In fondo che non siano nati da me non importa, purché esistano, purchè il nulla non avanzi.