Vienna 1683

Immagine presa dal web

Leggenda vuole che il caffè in Europa centrale sia arrivato portato dai Turchi i quali, ritirandosi dopo l’assedio di Vienna, lasciarono dei sacchi di chicchi neri e stranamente profumati…
Qui sotto inizia un tentativo di ricostruzione di quest’ evento che nella mia vita ha portato molti bellissimi risvegli.

Vienna, 5 Luglio, anno Domini 1683

Dò inizio a questo diario, io, Adalbert von****, al centro dell’estate, nell’anno più triste per Vienna, questo 1683 funestato dall’attesa dei nemici. Tutte le città cristiane tremano con noi, a noi rivolgono i loro voti, perché Vienna adesso è specchio della loro sorte. I Turchi arrivano, e nessuno sa perché. Già le avanguardie loro percorrono le colline, attraversano i boschi, con grida che sembrano ululati. L’imperatore Leopoldo è partito, in cerca di aiuti da altri re, mio fratello maggiore è con il suo seguito, e noi tutti ci sentiamo abbandonati.

Che queste pagine, inutili sia che noi sopravviviamo, sia che periamo, siano per me un conforto alla solitudine, perchè ormai presso nessuno vi è più aiuto. Il mio precettore continua il latino con un volto affilato, con una voce brusca che non gli conoscevo, e forse in tal modo cerca di prepararmi alle offese che giungeranno. Mio padre è sempre fuori, per organizzare la difesa, se mai difesa vi sarà, della città; mia madre piange nella sua stanza.

Nessuno parla con chiarezza davanti a me che sono giudicato un bambino, sebbene abbia da tempo deciso della mia vita. Non mi resta dunque che origliare i racconti dei servitori sulle crudeltà che i Turchi perpetrarono nella campagne, durante la marcia d’avvicinamento, e attendo l’arrivo dei nemici con un batticuore che m’impedisce il sonno. Tutto è interrotto, la vita della nostra casa e della città intera, e l’inizio del mio noviziato in convento è stato rimandato a dopo l’assedio, se vi saranno per noi altri giorni. Che vita è mai questa?

8 Luglio, anno Domini 1683

Che Dio abbia pietà di noi. Giungono. Le colline intorno alla città sono percosse dagli zoccoli dei cavalli nemici ed echeggiano cupe, ma essi non si mostrano ancora, restano celati nei boschi. Come saranno quando arriveranno?

12 Luglio, anno Domini 1683

Hanno piantato le loro tende, le hanno distese come un mare intorno alle mura di Vienna. Sono stoffe colorate a perdita d’occhio, grida e nitriti. Impossibile distinguere una fisionomia, un volto singolo, soffermare lo sguardo su qualcuno o qualcosa, tutto fra essi è mobile e inquieto come le onde. Una sola certezza derivo dal clamore loro, che essi sono lieti, perché certi della vittoria. E il loro accampamento, ampio oltre ogni umana immaginazione, vivo più che qualunque capitale cristiana, sta a dimostrare che così sarà.

14 Luglio, anno Domini 1683

Da anni dico quotidianamente il Santo Rosario, ma mai con così grande fervore come in questi giorni. Che la Madre Santissima di Dio ci protegga e stenda su noi il suo manto come fece un tempo a Lepanto. Per la prima volta in vita mia, oggi ho udito litigare i miei genitori; mia madre piangeva, diceva che avremmo dovuto andare via, come i nostri cugini, e mio padre, con una voce nuova, le rispondeva che resisteremo, che la Madonna ci salverà e permetterà all’imperatore di trovare aiuti tali che nessun nemico entrerà in Vienna. Udirli per me è stato come se le mura della città si fessurassero e s’aprissero. Già tutto si sovverte.

15 Luglio, anno Domini 1683

Non attaccano. Sotto le mura gridano, ridono, schiamazzano, ma non attaccano. I volti loro sono strani e terribili e davanti ad essi ricordo padre Marco, il frate italiano, che durante le sue prediche l’anno scorso predisse un grande castigo se noi viennesi non ci fossimo santificati.

Egli venne pure in casa nostra, parlò con i miei genitori, a me fece una carezza sul capo, lieto della mia vocazione, e mi invitò a pregare, a rammentare sempre le sofferenze del Signore Nostro Gesù Cristo in croce, nelle quali tutto quel che noi patiamo diviene facile e dolce da tollerare. E, certamente avendo in cuore la scienza di quel che sarebbe stato, mi raccomandò di non odiare, e mentre così diceva, il suo sguardo era felice e mite, sembrava vedere qualcosa che rendeva minuscolo quest’assedio ed ogni opposizione di cuori, qualcosa che andava alla radice gaia della vita. E adesso, per un istante, uno solo, trascinato dal ricordo di quegli occhi ho sentito, o immaginato, che noi e i Turchi, divisi dalle mura, da volontà e costumanze opposte, non siamo così distanti, che esiste, ben celato, qualcosa che ci unisce e renderebbe possibile, se solo si osasse, uno scambio, un sorriso, uno sfiorarsi di mani. Un attimo appena, poi il mio cuore è stato di nuovo serrato dall’artiglio freddo del terrore.

16 Luglio anno Domini 1683

I Turchi hanno fatto esplodere mine presso le torri settentrionali, senza provocare danni -una dimostrazione di abilità e potenza, non volontà d’uccidere e forzare, almeno per ora.

Si dice che in Candia, anni fa, abbiano fatto proprio così, logorando i difensori con gallerie di mina fin nel cuore della fortezza e che a nulla sia valso il coraggio eroico di questi. Io so soltanto che il boato fu terribile, anche se dal lato opposto della città rispetto a quello della nostra casa, e il fumo che s’è alzato sembrava l’annuncio di quello, ben più denso e atroce, che ci attende quando saranno entrati.

19 Luglio anno Domini 1683

Giorni neri di esplosioni. Il nostro udito era abituato a voci, musiche, canti, o comunque suoni d’uomini, animali od elementi, non a queste lacerazioni fragorose che sembrano dividerci da tutto e tutti. Perfino il Danubio è oscuro e con la tinta delle acque risponde al tormento dei nostri cuori.

20 Luglio anno Domini 1683

Vogliono prenderci per fame. Vogliono che lasciamo intatte le nostre case, i nostri beni, per potersene impossessare quando entreranno, per questo non cannoneggiano, non assaltano, e si limitano a esplosioni fuori dalle mura. E ci riusciranno. Oggi ho udito la governante dare ordini in cucina: minestra di farina e patate, null’altro per il desinare di mezzogiorno, sino alla fine dell’assedio.

21 Luglio anno Domini 1683

Mio padre raccontava di aver visto, tanti anni fa, quando l’imperatore era giovane, la caccia al cervo nelle acque del Danubio, tanto complicata che non fu più ripetuta da allora. Si erano allestiti padiglioni splendidi sulla riva sinistra, i cervi erano stati chiusi in un ampio recinto, fra musiche e conviti, poi, al segnale convenuto, con i cani e il rullo dei tamburi gli animali erano stati sospinti in acqua, e qui massacrati dalla sponda, mentre erano col muso a pelo d’acqua, l’alto palco di corna che ne segnalava la presenza ai cacciatori.

I bramiti, l’acqua arrossata, i corpi galleggianti trascinati a riva dai servitori: prefigurazione della sorte nostra. Noi ora siamo i cervi per altri, rinchiusi solo per essere costretti a gettarci nel luogo dove saremo più esposti ai colpi mortali; e anche noi cercheremo scampo là dove il pericolo è maggiore e il Danubio immutabile e indifferente che finora ha nutrito le nostre vite attende ora la nostra morte.

25  Luglio anno Domini 1683

C’è un’abitudine all’assedio. Non posso dire d’aver meno paura, ma sento gran desiderio di vivere bene questi che sono forse gli ultimi giorni a noi concessi. Penso quasi che, in virtù dei miei quindici anni insufficienti per qualunque impresa, mi s’addica qualcosa di ancora diverso dal compianto di mia madre, dalla resistenza di mio padre. Non so cosa, forse uno sguardo, libero da doveri che non siano quelli di un buon cristiano, capace di mostrare ai cari genitori qualcosa che, non so come, ma certo per grazia divina, li sostenga nei loro compiti, qualcosa d’affine allo sguardo di padre Marco d’Aviano, libero da odio e paura. E prego la Santissima Vergine, oltre che per la salvezza nostra, anche per questo specialissimo compito filiale che sento d’assumermi.

27 Luglio

Insieme al desinare che si fa più misero, tutto muta. C’è una maggiore libertà, nel bene e nel male. Il precettore non mi impone più lezioni: è magro, stanco, e sembra non credere più in quel che fa; oggi era febbricitante e non mi ha fatto lezione. E in generale nessuno più fa quel che faceva prima, e tenta di colmare questi giorni in modo inusitato.

Io oggi ho giocato nell’androne con lo sguattero che lava i piatti, il quale bighellona in cortile, non essendovi tante persone in casa e meno cibo. Non v’era nessuno cui domandare il permesso di farlo, il precettore malato, mia madre appena assopita, dopo una notte insonne, la governante fuori casa -e l’ho fatto, senza provare rimorso, pur sapendo che sarebbe una cosa disapprovata in tempi normali. Correvamo, facevamo andare le mie trottole; non avrei mai creduto che fosse tanto gentile persona. Mentre giocavamo, dal portone aperto vedevo il lastricato illuminato dal sole e sentivo un odore strano e nuovo, adatto a questi strani, nuovi, e forse ultimi giorni; un odore amaro e caldo simile a un profumo, che mi ha affascinato. Proveniva dal campo nemico, ma nemico non era.

Manifesto del contadino impazzito

Preso da qui: https://www.ilcovile.it/scritti/manifesto_contadino_impazzito.htm

Amate pure il guadagno facile,
l’aumento annuale di stipendio, le ferie pagate.
Chiedete più cose prefabbricate,
abbiate paura di conoscere i vostri prossimi e di morire.
Quando vi vorranno far comprare qualcosa
vi chiameranno.
Quando vi vorranno far morire per il profitto,
ve lo faranno sapere.

Ma tu, amico,
ogni giorno fa qualcosa che non possa essere misurato.
Ama la vita. Ama la terra.
Conta su quello che hai e resta povero.
Ama chi non se lo merita.
Non ti fidare del governo, di nessun governo.
E abbraccia gli esseri umani:
nel tuo rapporto con ciascuno di loro riponi la tua speranza politica.

Approva nella natura quello che non capisci,
perché ciò che l’uomo non ha compreso non ha distrutto.
Fai quelle domande che non hanno risposta.
Investi nel millennio… pianta sequoie.
Sostieni che il tuo raccolto principale è la foresta che non hai seminato,
e che non vivrai per raccogliere.
Poni la tua fiducia nei cinque centimetri di humus
Che crescono sotto gli alberi ogni mille anni.

Finché la donna non ha molto potere,
dai retta alla donna più che all’uomo.
Domandati se quello che fai
potrà soddisfare la donna che è contenta di avere un bambino.
Domandati se quello che fai
disturberà il sonno della donna vicina a partorire.
Vai con il tuo amore nei campi.
Riposati all’ombra.

Quando vedi che i generali e i politicanti
riescono a prevedere i movimenti del tuo pensiero,
abbandonalo.
Lascialo come un segnale della falsa pista,
quella che non hai preso.
Fai come la volpe, che lascia molte più tracce del necessario,
diverse nella direzione sbagliata.
Pratica la resurrezione.

W E N D E L L   B E R R Y
traduzione di Giannozzo Pucci

Dell’ebbrezza in Europa

Ciò che segue non è frutto di un mio avvinazzamento, ma di passeggiate serali per i centri storici delle città europee che ho visitato finora.

Ogni nazione europea ha uno stile di ubriacatura, frutto di un genius loci che si manifesta proprio quando cedono i freni inibitori per effetto dell’alcool.

Ubriachi, gli irlandesi diventano malinconici e dolci, gli inglesi aggressivi, i greci, sempre dignitosi,  bevono rakì dalla mattina alla sera e non sembrano mai ubriachi, gli austriaci disperati, i polacchi -finalmente- gentili.

E gli italiani? Ne ho avuto la percezione in Polonia, quando tutto il nostro gruppo saltellava e cantava dietro al cantante del pub. Mi si è avvicinato un nativo, ubriaco fradicio ovviamente, e mi chiede di dove sono

-Ah Italiana! Italiani…buddello!-

Auschwitz

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In Polonia non si trova mai scritto Auschwitz nelle indicazioni stradali. Il luogo è sempre e soltanto indicato come Oswiecim.

Ti avvicini e in giro non vedi niente di particolare, nella bella primavera che ci ha accolto in Polonia, solo alberi in fiore e casette col tetto rosso a spioventi. Poi lentamente si sprofonda, le ciminiere delle fabbriche in lontananza e come una vergogna sulle facciate, fino al piazzale dove già alle sette di mattina ci sono file chilometriche per entrare, come un tempo.

Un ragazzo, punta i piedi pallidissimo, non entra. -Non sono degno di calpestare questo suolo- dice e resta due ore sotto gli alberi del piazzale.

Varchi il cancello e ci sono guide in tutte le lingue, ma non in tedesco. Poi all’improvviso tutti i film che hai visto sono veri. Il doppio filo spinato, le torrette, i capelli, le scarpe, le valigie col nome ben scritto, gli occhiali, i vestitini dei bambini, in un crescendo insostenibile fino alle camere a gas e ai forni crematori.

Il caos degli ammassi di oggetti trova opposizione nel rigore degli allineamenti dei caseggiati e delle finestre, nel nitore dei profili e delle strade, nell’ordine allucinato di chi esegue gli ordini senza fiatare, senza chiedersi nulla. Sei in un lago di male, un male che filtra e dilaga subdolo cosicchè quando esci nei tetti e nelle finestre dei dintorni continui a vedere i tetti e le finestre di Auschwitz, come se quella fosse la forma di ogni cosa dopo e ci vogliono dei giorni per liberare la visione e scrollarsi di dosso quella melma viscida.

Uno dei ragazzi ha pianto per tutta la visita, il suo viso era una maschera di lacrime e non parlava, non poteva parlare. Se siete così meravigliosi, ragazzi, allora però c’è speranza. Fiera di voi.