
Si era messa in cammino subito dopo l’uccisone di Alexander. Perdeva sangue ed era debole, ma aveva latte per il piccolo. Con il diamante che restava dei gioielli cuciti nel suo corpetto, si era incamminata verso Bucarest. Non sapeva neppure quanti chilometri vi fossero da fare, non importava. Se fosse rimasta là avrebbero ucciso lei e il bambino. Era uscita di notte, sotto un vento terribile. All’alba un passaggio su un carro che andava verso sud. E poi un altro. Un tratto a piedi, un tratto sui carri dei contadini, senza mai parlare russo, solo tedesco. Parlare poco, sempre a testa bassa, che non vedano come sei bella, come sono fini i tuoi tratti e sottili i tuoi polsi. Portare la finezza come una colpa, un’accusa senza scampo.
Un po’ di pane secco, un pugno di noci da casa, qualche frutto dai contadini dei carri, quando vedevano il bambino. E tanto latte, tutta lei andava in latte e sangue. I vestiti che cadevano di dosso. Poi gli zingari. Come in ogni favola europea che si rispetti, ci sono gli zingari, o le fate. Mia moglie rendeva vere le favole. Qualunque cosa fossi stato pronto a bollare come frottola o storia buona per romanzi da quattro soldi, con lei era vera. Gli zingari, che io da storico avrei detto un fuoco ormai spento in Europa, per lei erano strumento di salvezza e buona compagnia. Forse c’era qualcosa di sbagliato nel modo di scrivere la storia, e lo cominciavo a pensare da storico. Forse esisteva un altro modo di conoscere, un modo che si trova nelle favole, quel modo che fa andare ogni cosa al posto giusto e tu dici: Sì! E’ così!, come se riconoscessi qualcuno sotto mentite spoglie.
Gli zingari l’avevano trovata addormentata sotto una quercia e l’avevano portata dalla loro regina. Lei aveva degli occhi terribili, come il fuoco che bruciava nel braciere.
Ti aiuterò, le disse, ma la salvezza può essere più dolorosa della sconfitta. Da lei Anastasia aveva accettato queste parole. C’era qualcosa in comune tra loro, l’antichità del sangue, che a quanto pare è tutto, per chi ce l’ha. Era stata bene nei loro carrozzoni, un po’ come a casa, e il piccolo era cullato dalle ruote.
Casa per lei è stata sia il palazzo sia il carrozzone. Casa è stata anche casa mia Era negli obblighi della corte e nella libertà dei nomadi, nei precettori e nei sobbalzi della strada, nel mio vecchio soggiorno, o non era in nessun posto, se non in questo sangue antico, troppo antico ormai, che conosceva tante forme, e sapeva stare con tutti.
Un sospiro lungo. Si stava avvicinando alla parte di storia che tutti conoscevamo dai giornali, ma il passaggio era difficilissimo anche da raccontare. Forse era andata avanti finora perchè lo aveva sepolto in sé stessa.
La piazza davanti al Palazzo Reale di Bucarest era enorme. La regina degli zingari le aveva detto
-Gente dura qui, capace di tutto. La regina lo sa e deve guardarsi. Fa quello che ti dice. Ti accompagneremo fino ai cancelli del palazzo. Buona fortuna Anastasia, sei un ricordo, come noi. Ma noi duriamo di più perchè siamo mendicanti. Dimentica, se puoi. Ricorda che avete molte colpe.
Il palazzo reale era piccolo, la brutta copia del palazzo degli zar, simile quanto bastava perchè il cuore di nuovo sanguinasse. Giorni lunghi vicino al palazzo, in attesa che la regina uscisse, in mezzo ad altri mendicanti sotto il portico, qualche ragazzino zingaro veniva a portarle un po’ di cibo o una moneta, senza farsi notare. Sotto i portici aspettava che uscisse Missy. Il piccolo piangeva sempre. Poi un giorno si issano le bandiere sul palazzo, un cannone tuona e poco dopo i cancelli si aprono. Si era appuntata i capelli come faceva da bambina, con due ciocche portate dalle tempie alla nuca, si era fatta largo fino al viale col piccolo. La carrozza dei reali era meno bella di quella dello zar –tutto su scala ridotta, come a dire So come si fa, ma questo è ciò che posso. Un attimo prima che i cavalli fossero davanti a lei, si era slanciata gridando Missy, Missy. Il movimento, o il grido, aveva attirato l’attenzione della regina che si era voltata, come si conviene a una regina, ruotando appena la testa sopra i merletti e le perle.
Allora lei era tornata bambina e piombando verso la carrozza aveva gridato a pieni polmoni
-Sono Nastj la birba, Missy! Missy!
Quale dei due nomi ha colpito la regina? Maria aveva sussultato come colpita da uno schiaffo. Non poteva fermarsi o parlare, ma si era girata ancora di più, a tempo per incrociare il suo sguardo. Il tuffo al cuore, il riconoscimento, la pena; e poi il suo capo per un attimo solo si era chinato, un attimo, perché una regina non abbassa mai la testa.
Una favola perfetta. Una favola da contadina. Adesso mi avrebbe detto che era entrata nel Palazzo Reale.
Mentre quella notte dormiva sotto al portico, uno zingaro l’aveva chiamata. Vieni, vieni subito, col solito fuoco negli occhi. Buia la piazza e buio un cancello, un giardino e corridoi, stanzette piccole. Il piccolo dormiva sprofondato e fuso in lei. Era strano che dormisse così e intanto intorno iniziavano salette piene di tappezzerie, tende, ricami e ninnoli, quel cattivo gusto che non c’era a Tsarkoe Selo e così confortevole per lei che viaggiava da un mese.
Buio fino alla regina, avvolta da un’ampia poltrona e da una vestaglia bianca. Gli occhi che la puntavano. Nel suo viso tutto è ritornato offerto con immagini che passavano una nell’altra come nel caleidoscopio e tiravano dentro senza che ci si possa opporre, Tsarkoje Selo, e le voci delle sorelle e di Alessio, i genitori, i tigli alti d’estate e tutto l’amore di un tempo, in un viso veduto poche volte da bambina e che tuttavia era anche sangue suo. Missy balzando in piedi mormora Anastasia, con paura e rispetto, una specie di inchino. Non si staccava dalle sue braccia.
– Dammi un passaporto Missy, fammi andare via- aveva supplicato
-Sì, sì- sussurrava lei accarezzandole la testa. Aveva lo stesso odore della zarina, talco e acqua di viole, quando l si chinava sui loro letti per impartire la benedizione per la notte. E da allora Anastasia odiava l’odore di viole. (Le avevo regalato la Violetta di Parma, appena arrivata a casa mia. Non l’aveva mai messo e ora sapevo perché. Stavo arrivando a sapere tutto. Ora, mentre il tempo finiva e non potevo fare più nulla.)
Missy accarezzava il capo del piccolo con parole terribili. Sei tu, me l’avevano detto ma non ci credevo. Sei in gran pericolo, sai? Ti cercano dalla Russia.. Sei un pericolo anche per me. L’ultimo Romanov…Nastj, sai cosa accadrebbe se lo trovassero?
E il piccolo tossiva, tossiva, gemeva!
Morirà, o lo uccideranno, se resta con te. Vi potete salvare solo separati, così siete troppo riconoscibili. Per salvarlo devi lasciarlo.
Aveva visto per un attimo tornare tutto, e sentiva ora cancellarsi tutto al tono di quella voce. E sentiva paura in quella voce, non pietà, come avrebbe dovuto essere, come sarebbe stato prima della rivoluzione. Lei era un problema per la cugina e nient’altro. Missy aveva fatto in fretta a chiudere col vecchio mondo. A Missy era sempre piaciuto stare bene, solo stare bene. Quella voce che aveva solo paura, pensava solo a ciò che chiunque farebbe. E intanto dai tendaggi, dagli angoli oscuri della stanza venivano fuori persone nere, forse zingari. Anastasia era debolissima, e singhiozzava Missy, Missy. Anche lei aveva paura. Tutto si chiudeva, niente tornava, durava o restava.
I due zingari sembrava che avessero le lacrime agli occhi, e lei non poteva aprire le mani e consegnare il piccolo. C’era come un nuovo cordone ombelicale, un tunnel lungo e buio che li univa di nuovo. E Missy ripeteva piano Nastj è necessario. Starà bene, colombella mia, credimi, e la sua voce intenerita scioglieva ogni legame, era un incantesimo, un precettore che correggesse gli errori di francese con dolcezza, qualcuno a cui appoggiarsi, qualcuno che sa come le cose dovevano essere fatte. Mia colombella ferita, abbi fede in Dio e in me. Lascia che ti aiuti e si salverà, vi salverete.
Aveva ragione. Dondolata dalla sua dolcezza, dalla sua pena, dal terrore per la sorte del piccolo, Anastasia aveva consentito alla nuova nascita. Aveva aperto le mani e lo zingaro più vecchio aveva preso il piccolo. Subito da bere una cosa forte e calda e Missy parlava piano, diceva non farti riconoscere, mai. Cerca una vita nascosta, mi raccomando Nastj. Hai nemici pericolosi. Io negherò sempre, per il tuo bene, d’averti riconosciuta e salvata. Sempre, mai, sempre, mai. Chiudere chiudere. Era caduta addormentata in un sonno improvviso, la bevanda doveva essere drogata.
Adesso piangeva e temevo che le facesse male.
-Ha avuto paura- ho detto piano
-Tu no, mai. Sei stato molto coraggioso. E’ stato bello trovare chi non avesse paura. Sei un vero re –
Forse era questa la vera investitura. Alla terza volta. Ma è difficile accettare di essere nominato re su una vecchia Ford impolverata, in mezzo alla campagna della Virginia, con una camicia sudata addosso e ricercato dalla Polizia. Ha continuato il racconto da sola, senza mie domande.