Achille a Sciro, 1

Teti, madre di Achille, sapeva che se il figlio fosse partito con gli Achei per Troia lì sarebbe morto, colpito al tallone che non era invulnerabile. Quindi lo nascose nell’isola di Sciro, presso la reggia del re Licomede, che aveva molte figlie e fra queste l’eroe si mescolò, vestendosi da fanciulla e lasciandosi crescere i capelli. Ulisse lo stanò con uno stratagemma: offrì alle figlie del re pettini e spade. Le fanciulle scelsero i pettini, Achille la spada. E’ la storia del riconoscimento di una vocazione.

Nella reggia di Licomede vivo sospeso. In mezzo alle figlie del monarca, così numerose ed uguali, fra i loro pettini, balsami e veli, respiro una femminilità diffusa, che vive nei molti loro corpi, non si concentra in alcuno e non si lascia desiderare. Essa mi avvolge, mi penetra con dita più sottili d’un capello sì che, quando mi specchio, non so più chi io sia, femminile la chioma e l’abito, virile il volto, i desideri nel cuore -intanto crescono i sussurri che non debbo udire, su navi in partenza, su regni turbati.

Neppure col centauro Chirone, mio maestro, sapevo chi fossi: da essere umano malinconie e timori, da creatura divina i presagi, i sogni, gli impulsi di dono e violenza, la certezza del mio valore. Egli mi teneva con sè, sulla soglia della caverna. Fuori i prati verdissimi; dentro, l’oscurità, ricca, non paurosa; noi due sul limitare. Mi chiamava capretto, mi offriva del latte, e, quando il sole era alto nel cielo, raccontava storie, che mi preparavano a questa duplicità, a queste fanciulle che mi circondano, ai capelli lunghi che mi rendono simile a loro.

Giunsi a lui ancora bambino, e disperato. Avevo respirato acqua, giocato con i delfini, il mondo intero era stato docile ai miei voleri; ma la mano di mia madre che m’immergeva nelle acque dello Stige per rendermi immortale era stata fermata da una volontà ignota e incomprensibile. Allora l’acqua amica all’improvviso mi aveva bruciato le narici, occluso la gola; poi, fuori, a me grondante fu chiuso e muto il mare, la terra apparve un campo di lotta. Una parte del corpo e dello spirito erano ancora incorruttibili, liberi ed eterei; altra parte di essi tremava terrosa e timorosa, vedeva il tempo scandito dal sole e la fine di ogni cosa e di sè; voleva esser come l’altra, non poteva. Chirone mi ha salvato, anche se mai potè spiegarmi chi avesse fermato la mano di mia madre.

Un tempo attendevo sugli scogli; mia madre immensa muoveva masse d’acqua più grandi delle terre abitate, e poi giungeva e giocava a trasformarsi sotto i miei occhi, in seppia, tonno, conchiglia, onda, e la rincorrevo sulla riva, gridando di gioia e paura; adesso nella reggia, attendo non so chi e che cosa. Nessuno giunge, eppure dovrebbe.

Sulla soglia, tra luce e ombra, per anni che mai sembrarono lunghi, a tutto partecipavo, a nulla appartenevo. Poichè in principio mi dolevo dell’essere mio diviso, mi forzavo a considerare il centauro e l’unione che lo componeva, nè più osavo lamentarmi. Infine la duplicità, l’unione di forme diverse, divenne consuetudine e poi norma e bellezza. Lo dissi a Chirone, che ne rise, e dal suo riso percossi i fiori, il cielo, i prati si scuotevano ed esultavano e un tuono s’udiva nel bronzo. Oh caprettino, mio caprettino, ti farò cadere nel latte; ti farò intendere quanto il Fato sia stanco di quest’unione e divisione piuttosto debba praticare, con una storia che accadde molto lontano da qui, narrata da un ateniese che adesso vive fuggiasco nelle selve -Atene, l’unica città che non andrà in guerra, la sola, la prediletta, che non sciupa le sue forze, che deve oltrepassare quest’età, una freccia scagliata nel futuro. Che sappiamo noi del Minotauro, che sappiamo di ogni storia?

Mi narrò che il Minotauro era buono, che voleva parole e storie di dei ed eroi, suoi parenti; che nel Labirinto voleva compagnia alla sua sventurata sorte di rifiutato. Dapprima avevo colto con gioia la sacralità della mescolanza, finalmente enunciata; poi la sua impossibilità, e molti brividi mi avevano scosso, come se avessi ricevuto un avviso. Anch’io, figlio di una dea e di un mortale, simile al Minotauro, destinato quindi a perire. Chirone mi donava pace, allargando questa fine al mondo intero, rendendola transito, spalancando alle nostre spalle epoche più felici sigillate da volontà invincibili, da torti imperdonabili.

Perchè, caprettino, verso la cristallizzazione si va e deve andarsi, verso la rigidità e la distinzione, affinchè possa giungere la misteriosa congiunzione che ci riscatterà. Io ero al termine, ma non ero solo al termine dell’antica età, e non solo Chirone era con me: c’era il bosco intero, mutato orrendamente.

Nozze a Persepoli, parte 2 (racconto da archeologi)

Nearchos – Anche in Atene, e nell’Ellade tutta, molte sono le mescolanze: il Minotauro assomiglia molto ai lamassu di cui parli, se pur l’inverso, corpo umano e testa taurina-

Damarato – Ma il Minotauro fu mostro feroce da perseguitare e uccidere con gioia; i lamassu invece vegliano e proteggono con mitezza. In tutta l’Ellade abbiamo orrore della mescolanza, mio giovane Nearchos, e da qui discende tutto-

Nearchos –Conduci uno strano discorso, molto antico. Gli dei, i miti, le antiche storie sono stati resi remoti da Alessandro il Grande e dai nostri maestri filosofi. Nessuno più vi crede davvero-

Damarato -Le antiche storie continuano ad agire in noi e ci modellano, come fa una matrice dopo che il bronzo vi è stato colato. L’oggetto che ne esce nulla sa della cavità che gli diede forma, ma quella forma reca per sempre. E dunque noi Greci cresciamo persuasi che ogni vivente e ogni non vivente abbia una sua forma e che tale debba restare. Mostri coloro che recano su di sé i segni della mescolanza. Proviamo orrore del caos, di ogni caos. Apollo, signore dei limiti, ci ha fatto questo dono. Mantieni la forma e ti sentirai giusto; astieniti dalla mescolanza e sarai perfetto; astieniti dal contatto con chi è diverso. Alessandro è andato contro questa legge ed è morto anzi tempo-

Nearchos –Sei cresciuto in Atene, onorando i limiti apollinei e tuttavia a Persepoli è stato un ritorno a casa. Oscuro come certi vaticini,  e ancora ruoti intorno al centro del tuo discorso oscuro, come il sole intorno alla terra-

Damarato -Immagina di spezzare la forma in cui sei stato calato. Di sentire infrangersi i contorni che ti rendono te e percepire una vicinanza nuova a tutto il resto, una vicinanza tale da farti riversare per un attimo nelle acque di un fiume, nelle zolle del campo, nella tua sposa. Di farti acqua terra o donna, velocità, germinazione, freschezza. C’è un riposo in questo, oltre che una gioia. Una festa con poco vino, il giusto, e la brezza fra gli ulivi. L’io può sembrare allora un carcere, l’individuazione un giogo-

Nearchos –L’io è tutto quel che ho. Non posso rinunciarvi, nonostante le tue parole ammantino di bellezza questa scelta-

Damarato –Non ricordi le parole del maestro che proprio in questo luogo ascoltò Socrate? Come, e con quale dolore e sapienza, descrisse l’anima costretta a scegliere in quale forma incarnarsi ancora. Tu non hai alcun possesso. Il prigioniero non possiede il carcere, lo patisce. E tuttavia ti capisco, nemmeno per me è stato facile in principio. E se non fossi stato trascinato dal desiderio per la mia misteriosa Darice, così mista, forse non sarei riuscito nell’impresa. Le grandi notti di Persepoli con lei, quando il mondo sembrava spaccato a metà, sopra la notte fredda e piena di stelle, sotto la terra sabbiosa, in mezzo noi che rimescolavamo tutto. Alessandro mi rimproverava, benignamente, ma turbato. Sei più persiano di Dario, diceva fissando i miei ricci sulle tempie, la tunica ricamata, e così dicendo rideva, ma scuoteva il capo. La stessa perplessità nei Magi dei templi. Alessandro mi giudicava troppo persiano, i sacerdoti troppo poco-

Nearchos –Io stesso non riesco a figurarmi te al modo persiano. La nostra semplicità ti aveva stancato, temo. In fondo cosa offriamo noi greci? Libertà non più, ormai; solo discorsi, molti e molto belli, e cene con pane, olive, e agnello se va bene. E piccole case, grandi agorai. Ma nei discorsi cerchiamo di dare forma alle idee e alle cose, in questo simili agli dei che diedero le forme al caos. Ti ho fatto sorridere?-

Damarato – Ricordavo le gelatine di rose e le carni speziate sulle terrazze di Persepoli. Là nessun discorso, certo, solo unioni di corpi. Il logos è qui, ma il logos non bastava in quei giorni. Un’ubriacatura senza vino, perenne, terminata poi nell’orrore e nel risveglio come da un incubo. Un anno circa dopo il matrimonio, poco prima che il nostro re morisse e quando a Darice già si gonfiava il ventre per la gravidanza, avevo preso a fare lunghe cavalcate nei dintorni di Persepoli. In principio era bello. Il mio cavallo era veloce e in poco tempo ero lontano e la città davvero appariva lucente e irta come una corona a mezza costa sul monte, il sogno di un re, il luogo dove tutto si arenava e si concludeva e così doveva essere. Tutto in pace, tutto giusto. Ma contemplandola da lontano notavo una mancanza dal magnifico paesaggio di qualcosa che era essenziale e doveva bilanciare la vista. Il disagio era tremendo, non riuscendo io a nominare cosa fosse necessario e sembrando empia quella vista di una città fatta da soli viventi. Mancavano, infine l’ho compreso, le necropoli fuori dalle mura della città, quell’ammasso così familiare di avvallamenti e lapidi e muriccioli alla buona che incontriamo fuori da ogni porta di Atene e di ogni città greca –

Nearchos – E dove erano le necropoli?-

Nozze a Persepoli, parte 1 (racconto da archeologi)

Una giornata di Luglio, caldissima, dell’anno 300 a.C.. Sulle rive dell’Ilisso, dove Socrate parlò d’amore con parole nuove, che  Platone ricordò e scrisse, sedevano due uomini, uno alle soglie della vecchiaia, l’altro molto più giovane, forte e biondo. Non sembravano padre e figlio, né padrone e servo, piuttosto maestro e allievo. Chi si fosse avvicinato, sopra il mormorio dell’acqua avrebbe colto strane parole

Nearchos –Amico mio, che forse dovrei chiamare maestro, per età e sapienza tanto maggiori delle mie, già conosco questa tristezza che ti prende, non è nuova. Viene col caldo, ma non so se il caldo ne è la causa-

Damarato – Il caldo è carico di ricordi, anche se non è forte come il caldo della Persia alla quale devo i ricordi. Vedi quelle due pietre in mezzo all’acqua? Una è appuntita, quasi triangolare; quella accanto arrotondata dalla forza dell’acqua. Per te e per me sono diverse, vero? Per noi Greci è così: forme diverse corrispondono a cose diverse. Bene in Persia non è così. Niente è troppo diverso da tutto il resto. Da questo ha avuto origine la mia tristezza-

Nearchos –Non capisco. Raccontami più chiaramente, vi prego-

Damarato – Sei troppo giovane, così agli inizi della vita, con una sola battaglia alle spalle, ancora senza moglie, puro come queste acque fresche, giusto appena intorbidato da quel po’ di filosofia che abbiamo ascoltato insieme nella stoà. Quindi è difficile per me parlarti e delle mie parole temo non solo il ridicolo davanti a chi è ancora intatto, ma anche i detriti che lascerebbero in lui. Tuttavia proverò, per non costringerti a essere inquieto o curioso.

Sai che Alessandro, conquistatore del mondo, allievo di Aristotele, figlio del grande Filippo, il giorno delle sue nozze a Persepoli costrinse me ed altri a sposare nobili donne persiane. Ricordi, annuisci, e sembri colmo di entusiasmo: dovresti invece piangere la decisione sublime e inutile del nostro re. La contrapposizione di Europa e Asia, fondata sin dai tempi dell’assedio di Ilio, lui ha vendicato abbattendo il Gran Re; non ancora pago di questo, che ci era sembrato un lavacro rituale, ha quindi proceduto contro l’ordine delle cose, perché questo è stato, decidendo di fondere insieme ciò che il Fato aveva stabilito disgiunto e di unire Greci e Barbari. Segno dell’unione era il suo matrimonio con la figlia del re e il matrimonio dei suoi compagni con principesse persiane. Questa è il ragionamento che conduco nei giorni normali, invernali o freschi, ma quando Sirio splende e porta la canicola, tutto muta e si ribalta e penso che fu una grande idea e un grande fallimento, degno di Persepoli. Ti deludo, Nearchos amico mio, troppo giovane e saldo per apprezzare i dubbi e le doppie verità-

Nearchos– A dubbi e verità mutevoli ci addestrarono i poeti tragici a teatro, e i filosofi nelle stoai, maestro. Reggerò qualunque rimpianto ti induca a mutare idea sotto Sirio e imparerò-

Damarato– Mi avevano detto, allora, che mi era toccata in sorte una donna bellissima, Darice. Ero giovane, poco più dei tuoi anni, non ancora stanco di combattere, e ricco: Alessandro era molto generoso con noi. Ero felice di quanto si favoleggiava circa lo splendore della mia promessa sposa. Ringraziai gli dei con molti sacrifici e intanto cercavo di abituarmi alla città. Persepoli è a mezza costa di un’alta montagna e ha monti intorno che chiudono una vasta pianura, sì che il luogo sembra una corona sul mondo, voluta dal Re dei Re ad altezze inconcepibili per un Greco. Terrazze vaste tre volte l’Acropoli, una sull’altra, una accanto all’altra, e rampe, intagli nitidi, splendori di pietre e ori; ma solo ricchezze, non una città ai nostri occhi, poiché invano abbiamo cercato un’agorà, uno slargo qualsiasi dove radunarsi e parlare, un teatro, i segni, insomma, della vita civile; di una città nulla vi era, solo salire e salire tra mostri di pietra e strane colonne fino alla sala del trono, con l’aria sempre più sottile ad ogni gradino, e la testa che girava. No, non una città, ma un altare, o un trono colossale che richiedeva l’offerta di sé stessi.-

Nearchos– Più bella la nostra Atene, dunque?-

Damarato– Non so rispondere a questo. Di sicuro ad Atene si può vivere, a Persepoli solo adorare. Il loro dio è strano, è un fuoco che brucia da millenni, senza volto o forma o statua di qualche genere, pur essendo lui che dona le forme a tutto; ad esso l’anima dei sapienti e dei buoni si ricongiunge dopo la morte, perdendosi nella luce. Vorrei che avesse consumato anche me, su quelle terrazze, invece di lasciarmi ardere lentamente tra le braccia della mia sposa. Quando l’ho vista, con quegli abiti strani, tunica e calze larghe, e il velo sulla bocca, pur deluso che fosse tanto scura, neri i capelli e gli occhi, bruna la pelle, ho sperato di poterla desiderare; ma quando si è tolta il velo, con un gesto quasi di sfida e invito alla lotta, il desiderio si è infranto contro la peluria bruna sul labbro superiore, le spalle forti da ragazzo e lo scintillio fiero degli occhi. Sembrava un uomo, forse era un uomo. La festa per le nozze girava intorno a noi, ottanta generali greci ai quali il nostro signore Alessandro aveva voluto dare una moglie persiana, e volgendo lo sguardo intorno, tra i musici, i coppieri, i danzatori, vedevo che tutte le donne toccate in sorte ai miei compagni erano più belle della mia, cosicché, quasi scorgendo negli occhi di tutti irrisione e pena, bevevo più del dovuto e quando fu il momento del rito, e lei si è seduta accanto a me in attesa che le porgessi il pezzo di pane che doveva farla mia moglie, ubriaco fradicio non riuscivo a spezzare la focaccia. E di nuovo lo sguardo di lei lampeggiante, e ancora più vivido dopo la notte nuziale che trascorse senza di me, unica tra tutte le spose, essendomi io addormentato sul triclinio del banchetto; una luce così viva e liquida che mi faceva pensare al lago che dicono essere al centro dell’Asia, colmo di un ‘acqua nera e densa nella quale una torcia gettata accesa può bruciare giorni e giorni senza mai spegnersi, alimentando anzi un gran fuoco. E dopo tre giorni trascorsi senza quasi parlarci e sfiorarci, contemplavo quella luce d’ira e vi cadevo dentro, dimenticando la peluria sul labbro e le spalle forti sopra piccoli seni, finendo in essa mentre le toglievo tuniche e sete e drappi, cercando in mezzo ad essi la risposta alla domanda che mi assillava e trovando nella ricerca prima il mio desiderio resuscitato che la risposta alla domanda; e pur stordito, tuttavia capivo, come se una luce si accendesse dentro, che quel suo strano e ambiguo volto era la causa vera del desiderio. Quando sono entrato in lei, è stato come quando abbiamo varcato la porta delle Nazioni di Persepoli, un atto fausto e facile perché giusto, un appropriarsi di quanto ci spettava da tempo, una sorta di ritorno a casa.

Ecco, ritorno a casa, questo furono Darice e Persepoli in principio. E perché sensazione di casa, se la mi sposa era così diversa dalle spose greche, se quella Porta era maestosa in modo indecoroso, quasi oltraggioso? In molti mesi, lentamente e come se guarissi da un morbo, ho capito. E’ che in Persia tutto è mescolato. Nei cibi l’acido si unisce al dolce e si tempera nell’unione; nelle ante murarie, nelle basi dei pilastri, ai lati delle porte, i rilievi di tori con volto umano, i lamassu protettori delle soglie, ti fissano forti e placidi; la mia sposa sembra un uomo-

Labirinto (completo)

Il testo di Capodanno era solo l’inizio…

 

Labirinto

Qui, nel mondo sotto al sole, vogliono che io torni ad essere degli uomini e delle cose, che ancora mi disperda nel dedalo di cuori e strade, ma ormai so che non serve tentare di conoscere quanto è all’esterno di me. Questo mi resta del mio soggiorno nel Labirinto, dove a nulla valevano i simboli dipinti all’ingresso delle gallerie, i disegni e le mappe che ne riproducessero l’andamento: piuttosto giovava la conoscenza del cuore, sapere quanto tempo si potesse reggere la solitudine o la speranza.

Poichè questo tesoro di sapienza avevo appreso nella sede del Minotauro, che Gea stessa, impietosita, non potendo disubbidire al Fato e concedere libero il passo al mostro, si sottraeva però a lui che, desideroso di morte, tentava di squassarsi contro le rocce della dimora sotterranea; Gea addolciva i di lui giorni con lisce pareti pietrose e pavimenti levigati, replicava in sè, nelle sue membra di terra, ciò che egli pativa per renderlo meno solo e davanti al suo vagare apriva gallerie differenti per aspetto e andamento a secondo del sentimento che lo muoveva, affinchè, nella più cupa solitudine che nessuna creatura poteva mitigare, almeno le zolle gli rispondessero. Così nel groviglio più fitto vi era la riproduzione di un’angoscia oscurissima, nel cunicolo che saliva dritta verso la superficie, e poi s’inabissava, la speranza di libertà rivelatasi fallace.

All’arrivo del nostro gruppo di vittime, i fratelli di apparente sventura, giunti nel Labirinto molti anni prima, avevano parlato un greco di oscuro significato: il tributo al Minotauro non era di sangue versato, ma di compagnia e sorrisi. Poi capii, io per primo tra i miei compagni. Temendo che il muto patto fra Gea e il mostro non avesse a scuotere le fondamenta di Creta, era stato stabilito il tributo di fanciulli, e per questo soltanto, non per la morte, ma per la vita. Noi e gli altri prima di noi, con la nostra compagnia, dovevamo essere confine al labirinto scavato dalla furia della creatura divina, limite al disperato vagare di chi svuotava il suolo dell’isola, impedendo agli abitanti l’orgoglio di colonne, guerre e parole.

Il lungo viaggio per mare, lo sbarco trionfale a Cnosso, noi muti per il terrore. Appena la porta di bronzo  si richiuse alle nostre spalle udimmo il suo bramito caldo. Una torcia tremava presso lo stipite ed egli era fermo al bordo del chiarore. Il mio sguardo percorse il suo corpo: mi salvai perchè, quando fissai la testa, abbandonai per grazia degli dei le forme usate fino ad allora dalla mente e accettai di entrare dove nulla di già appreso valesse. Solo così, sopra le belle membra e il gonnellino scarlatto, potei affrontare la testa di toro lentamente ruotante. La nuca, china e offerta, da vittima sacrificale, non da fiera, mi trattenne sul limitare di Ade. Coloro che ci avevano preceduto debolmente si mossero quindi dall’ombra incontro a noi, ci fecero festa, con le forze consentite dalla vita sotterranea. Nella remota galleria che serviva da cimitero, seppellimmo quelli che, fra i compagni di gioco sul ponte della nave infiorata, erano morti alla vista del nostro ospite; dal numero dei tumuli appresi i molti anni del mostro celati nel vigore del suo corpo, nel muso setoso.

Vi era mitezza ovunque, nel luogo, nelle persone; nulla che offendesse o legasse. Per le prime lune non potei consentire a questo e coltivavo in me rabbia e dolore, badando che non si smorzassero. Trascorrevo i giorni a contemplare le aperture nelle volte delle sale coniche, da dove quotidianamente si provvedeva a noi. Le ceste colme di cibo, legna e tele scendevano con funi più lunghe della mia voce, risalivano prima che potessi liberarmi dai compagni che mi tenevano e mi imploravano di non tentare – chi era fuggito, riconosciuto subito per il pallore e l’abito, era stato messo a morte, destino che mi appariva più invidiabile del mio. Mi consolava solo la vista del Minotauro, l’attenzione che imponeva all’anima desiderosa di comprendere la giuntura fra parti così diverse, di trovarne il centro che le reggeva. Dopo tale sospensione gli affanni tornavano, ma indeboliti e remoti – sino a che non fui definitivamente vinto dalla bovina mansuetudine che mi aveva atteso: tanta pietà mi ispirava che restai, vissi, e infine fui là felice.

Sotto il suo sguardo lentamente ritrovai in me quel che credevo perduto, stagioni, luoghi e volti, rinnovati da una brezza o da un’ombra dalle aperture; per lui, per trattenerlo accanto a me e impedire che col vagare estendesse il labirinto, estrassi tesori inaspettati, la figura del giusto padre, della cara madre, di tutti i fatti che avevo vissuto. I miei ricordi, quando divennero parole e cessarono d’essere dolorosi, contribuirono ad allungare la porzione di storia nota nel Labirinto, che a sera gli anziani amorosamente ripetevano. Io e i miei compagni ricostruivamo insieme genealogie, fissavamo date, notavamo stupiti i mutamenti degli oggetti abbandonati in patria, lo sviluppo e la varizione degli eventi da un prigioniero all’altro, il portico dell’agorà lucente di belle tinte farsi nel ricordo altrui scuro di fuliggine e di anni, la breve lite ai confini divenire guerra sanguinosa e protratta. Il Minotauro muto guardava e ascoltava, poi d’un tratto si agitava, come annoiato. Temendo la sua disperazione, e che essa lo inducesse ancora ad avventarsi contro le pareti di terra, recitavamo allora i versi degli antichi poemi, al suono dei quali egli si tendeva, fremeva e piangeva, nell’intimo non duplice come all’aspetto, ma di pura sostanza, toccata davvero soltanto dall’entusiasmo che aveva mosso i poeti; davvero figlio, come si narrava, del signore del mare e di un’antica regina dell’isola.

I compagni più anziani ci narrarono infatti che in tempi remoti il dio dell’acqua informe aveva vestito il sembiante di toro per la regina dell’isola che l’aveva invocato. Da quel lontano amore era nato il Minotauro. Ci turbava in questa storia non la nascita del mostro, ma la presenza degli dei fra gli uomini e sulla terra, e quanto vicini fossero stati un tempo coloro che ci avevano abbandonato e tuttavia ci tormentavano con allusioni e istinti senza mai rivelarsi, senza concederci nel Labirinto un rito che ci consolasse! Unica consolazione, oscura, era il mostro. Egli da sotto terra ci accostava al cielo molto più che qui, nel mondo umano, dove abbondano riti, libagioni, e primizie numerose, lucenti di sole. Se gli dei inaccessibili e smaltati si erano ritratti, a noi, vittime del Labirinto, avevano lasciato un pegno vivente della loro potenza, generatore di nostalgia infinita per l’epoca nella quale essi erano presenti sulla terra e con le forme giocavano. Figli di un tempo triste e meccanico, nella natura costretta entro specie fissate, nell’ordine noto, sentivamo gli dei operare ormai solo sull’invisibile e sui segreti moti del cuore, ma contemplavamo attenti nel Minotauro l’antica libertà, la mescolanza inconcepibile.

 

Della fine numerosi furono i segni: i nuovi arrivati erano duri, ironici, sicuri; non credevano al sacrificio richiesto, al Labirinto, alla penombra che rendeva preziosi i gesti, intensi i ricordi, i versi degli eroi. Le provvigioni dall’esterno diminuirono e talvolta dalle aperture ci offesero suoni di risa e passi affrettati. Temevamo qualche rivolgimento politico; piuttosto avremmo dovuto guardarci da quella voglia di fare e agire che i nuovi arrivati mostravano in sommo grado, figlia di un’inquietudine che non si placava. Che altro fu, se non un’incapacità di contemplazione a determinare l’anticipato schianto del portone di bronzo? l’ospite divino sparì nell’ombra, più toro che mai nel passo rigido. I nostri cuori restarono in attesa presso il filo scarlatto e ben ritorto, poi l’urlo che oltrepassandoci divenne muggito ci orientò nel buio, attraverso il gorgo di cunicoli. Io corsi più veloce e giunsi prima degli altri, appena a tempo per vedere il fanciullo estrarre la spada dal fianco del mostro; negli occhi del mostro ci fu una resa, poi nell’abbassarsi delle palpebre un consenso a qualcuno invisibile presso di lui, infine un sollievo. Subito giunsero gli altri ed io vidi solo allora il volto dell’assassino metallico di sudore, che sulla Terra avresti detto bello. Teseo, il nome gridato sopra il mostro ucciso; ateniese, come noi; il suo scopo la liberazione della patria dal tributo odioso, dell’isola dal mistero intollerabile sotto i piedi. A questo si era allenato nel palazzo reale di Cnosso, empia, insufficiente imitazione umana del Labirinto, figurandosi mostri nel buio, rinsaldando il proprio cuore, costringendosi ad avanzare quando la virtù mancava; e il Minotauro, dopo aver visto sempre tutto sottrarsi al suo cospetto, la madre, la terra impietosita, i fanciulli al portone, felice era andato incontro a ciò che verso di lui avanzava senza paura, la spada, la mano ferma, gli occhi brillanti.

Volontà degli dei era che all’infanzia del mondo succedesse una misurata giovinezza di uomini soli e potenti: non più mostri, in nessun luogo; i navigatori riportavano, dall’oscuro Oriente, dal periglioso Occidente, solo mercanzie e notizie su porti e strade, non storie o pegni di sirene e grifoni; misteri e mescolanze si erano ritratti ai confini del cosmo e a noi spettava farci causa delle cose. Col fanciullo in testa uscimmo nel vero Labirinto del mondo illuminato dal sole: nessuno dedusse dal nostro numero e aspetto la bontà del mostro, nessuno credette che dentro la terra avevamo avuto la nostra parte di felicità e si contò solo chi mancava. Adesso vivo in una grotta e fuggo gli uomini; di tanto in tanto mi si recano cibo e notizie e così apprendo che Teseo regna incontrastato su un mondo senza sorprese.

 

 

Auguri e Labirinto, 1

Auguri a tutti gli amici di blog, siete stati importanti per me, e affettuosi,  anche se gli anni e gli eventi degli ultimi mesi mi hanno resa sentimentale. Prometto che mi indurirò con l’anno nuovo. Auguri a tutti e mi auguro che alcuni, Rebecca, Giuliana, Elena, scrivano sempre di più. I loro post sono preziosi per me. Mi auguro inoltre che alcuni, ultimamente silenti, tornino a scrivere come un tempo. Intanto prendo congedo dall’anno con un piccolo racconto, evidentemente ispirato alla Casa di Asterione di Borges, nulla di particolarmente originale. Dedicato a tutti noi, perchè tutti siamo Asterione.

Labirinto, 1

Qui, nel mondo sotto al sole, vogliono che io torni ad essere degli uomini e delle cose, che ancora mi disperda nel dedalo di cuori e strade, ma ormai so che non serve tentare di conoscere quanto è all’esterno di me. Questo mi resta del mio soggiorno nel Labirinto, dove a nulla valevano i simboli dipinti all’ingresso delle gallerie, i disegni e le mappe che ne riproducessero l’andamento: piuttosto giovava la conoscenza del cuore, sapere quanto tempo si potesse reggere la solitudine o la speranza.

Poichè questo tesoro di sapienza avevo appreso nella sede del Minotauro, che Gea stessa, impietosita, non potendo disubbidire al Fato e concedere libero il passo al mostro, si sottraeva però a lui che, desideroso di morte, tentava di squassarsi contro le rocce della dimora sotterranea; Gea addolciva i giorni di lui con lisce pareti pietrose e pavimenti levigati, replicava in sè, nelle sue membra di terra, ciò che egli pativa per renderlo meno solo e davanti al suo vagare apriva gallerie differenti per aspetto e andamento a secondo del sentimento che lo muoveva, affinchè, nella più cupa solitudine che nessuna creatura poteva mitigare, almeno le zolle gli rispondessero. Così nel groviglio più fitto vi era la riproduzione di un’angoscia oscurissima, nel cunicolo che saliva dritta verso la superficie, e poi s’inabissava, la speranza di libertà rivelatasi fallace.

All’arrivo del nostro gruppo di vittime, i fratelli di apparente sventura, giunti nel Labirinto molti anni prima, avevano parlato un greco di oscuro significato: il tributo al Minotauro non era di sangue versato, ma di compagnia e sorrisi. Poi capii, io per primo tra i miei compagni. Temendo che il muto patto fra Gea e il mostro non avesse a scuotere le fondamenta di Creta, era stato stabilito il tributo di fanciulli, e per questo soltanto, non per la morte, ma per la vita. Noi e gli altri prima di noi, con la nostra compagnia, dovevamo essere confine al labirinto scavato dalla furia della creatura divina, limite al disperato vagare di chi svuotava il suolo dell’isola, impedendo agli abitanti l’orgoglio di colonne, guerre e parole.