Mi alzo. Un drappello d’Arabi avanza verso di me. La spada pesa, mi chiama. Le mani tremano, come la notte che vendetti i gioielli di mia madre per avere farina. Qui muore Demetrio Nikeforos, stratega di anni ventitre, senza aver mai saputo nulla, visto nulla; non ho tradito eppure ho tradito; ho amato, malamente; non ho visitato nulla del vasto mondo; solo i nemici che dormono in me conosco bene; non sono stato nulla, o lo sono stato per troppo breve tempo. Questo è il mio epitaffio.
In capo al gruppo di nemici vi è un giovane dal volto asciugato dal vento e dalla sabbia fra i quali fu generato e visse. Per morire desidererei un aspetto altrettanto secco, oppure il volto di Eudossia mentre era sospinta in chiesa. Mentre penso questo tutto si fa nuovo, rifondato. Forse c’è ancora qualcosa. La Torre adesso è di materia definitiva e inattaccabile, e si oppone alla morte, un nitido, candido rettangolo sopra la massa informe. Purezza, avorio, forza, procedenti dallo sfascio e dalla putredine; volti, forme restaurate; tutto nuovo, finale e iniziale insieme; se da questa fine nasce la grazia che perfeziona il tempo, forse davvero ciò che non si osa sperare è oltre la soglia, nei liquami del corpo disfatto.
Mi volto verso l’arabo che si è fermato davanti a me. I suoi occhi sono azzurri, il volto bello, annoiato. Davvero in questi occhi, in questo istante, in questa lama protesa è la mia morte? Sì, è così. L’arabo, questo che mi fissa da un tempo brevissimo e immemorabile, sarà il mezzo della fine; questo e nessun altro. Io non lo vincerò.
Tutto intorno si fa anfiteatro, per un attimo, e poi sprofonda di nuovo. Restiamo io e lui. Invidio la solidità nutrita di buon cibo, di sonni ininterrotti, che il mio avversario manifesta.
Mi colpisce inaspettatamente al braccio sinistro, di striscio, come un invito. Non il dolore, ma l’odore mi sveglia. E’ quello del sangue, che respiravo sulle mura quando ancora combattevo, ferroso e aspro in testa, che subito dilegua e lascia luogo a un aroma di miele e di fiore schiacciato, vischioso. Io, Demetrio, ero il guerriero che versava più sangue nemico. Non sprezzante, ma incredulo di ciò che formava la paura altrui, colpivo come danzando e i nemici erano ombre di luna che scivolavano nel buio sugli spalti, un bagliore d’occhi e scimitarra insieme, null’altro; alzavo questa spada e colpivo, senza temere e senza odiare, senza pensare a nulla, solo alla gola, al cuore del nemico che si offriva docile alla lama; e non ero mai diverso all’alba. E il giorno dopo pregavo di avere la fede necessaria a non concedere più sostanza di un’ombra ai nemici che avrei incontrato.
Costui che è davanti adesso è un’ombra egli pure, e adesso rifluisce quella facilità.
Il movimento col quale sguaino la spada è un semicerchio, come il Porto Grande.
Alzo e abbasso la spada davanti a me, compiendo lo stesso arco che fu il volo di mia madre dalle mura, avvolta nel sudario, quando un nemico sconosciuto, più temibile degli Arabi, a nostra insaputa aveva cavalcato l’aria salmastra e covato nei cibi avariati, nelle strade infette per i cadaveri, nei mucchi di sporcizia. Gettavamo in mare i corpi avvolti in bende, con pietre alla cintura, sperando che intossicassero il campo nemico e compissero così i morti quel che i vivi non riuscivano a fare, e con la malattia, piuttosto che con la spada, sconfiggessero i nemici.
E il volo di lei dalle mura, per la sepoltura marina, il corpo, compatto come una statua nella tela candida, che era sceso in una ampia curva, adesso serve per calare la punta della spada sull’arabo che vacilla, sorpreso dalla potenza e dalla bellezza del mio colpo.
Nei suoi occhi s’accendono ammirazione e rabbia -già questa è vittoria. Mi volgo al duello come a un gioco. Si avventa su di me a spada levata, io gli oppongo la mia, curvandomi all’indietro, e così duro per un istante infinito. Duro, come sugli spalti al principio dell’assedio, quando ancora non avevo paura, quando ancora ero la gloria di Siracusa e le notti erano vaste e colme di speranza. Il fuoco che non brucia i corpi teneri nella fornace, i leoni ammansiti nell’arena, il fanciullo risparmiato sul monte -credi, credi.
L’arabo si libera, di nuovo si avventa. Io mi avvento con la sua stessa forza. Questa forza che spinge uno verso l’altro è simile alla forza che spingeva me ed Eudossia nei primi tempi del matrimonio.
E la mia spada affonda nella carne morbida dell’arabo; con un piacere fisico, come quando sugli spalti ho infierito la prima volta sul corpo di un arabo che aveva ucciso, e assaporavo il rumore dei calci sul ventre che si sfondava.
Inutile, repentina bellezza del duello; capisco che qualcosa o qualcuno mi sospinge dentro il passato dal quale attingo forza e figure per combattere -la spada alta levata adesso è la Torre Grande; dalla vita terminata, dai luoghi scomparsi, traggo l’unica risposta possibile agli assalti del nemico, combaciante con le sue mosse, quasi che tutto sia esistito solo per consentirmi il patrimonio di atti che costruiscono questo scontro ammirevole, e nel farsi schemi di duello consumano la colpa e mi fanno lieve; la punta schivata, l’affondo parato, attingendo prescienza dei colpi nel canale invisibile che mi lega agli occhi turchini.
Che cosa ormai resta da usare come risposta o come attacco? Sottile avanza la paura, nelle membra striscia e s’insedia, e mi offre i cadaveri della breccia, i loro volti mangiati. Credi, credi, ai cieli aperti sopra Stefano protomartire, al fanciullo risparmiato sul monte. Non posso più credere e mentre paro il nemico interno quello esterno s’avventa. Io acconsento. Unitario in ogni fibra reggo l’urto al centro del petto, ripetendo in me la chiusura del vecchio servo quando lo picchiavo. Subito il corpo risponde nel modo consueto, con la meraviglia, con le dita che cercano l’elsa e gli occhi che cercano l’avversario nel buio incipiente, invano, perchè quel che era mio adesso non lo è più, nè dita, nè occhi, nè nemico- recisi sono i fili.
Cose, paure, rimorsi, incombono come masse minacciose e torbide, mentre il cielo s’allontana veloce. C’è l’arresto contro un fondo e la risalita nell’acqua densa che assorbe e cancella quel che prima aveva torreggiato; cadono la violenza, i torti a Eudossia, gli arabi morti, i giorni di viltà, tutto quel che aveva colmato il cuore creato invece per l’incandescenza popolosa che adesso si rivela, si avvicina.