Il pranzo dei morti, 15

Donna Cubitosa si avvicinò lentamente al gran letto. Le cortine erano chiuse e per terra giacevano gli abiti del marito, come la muta di un serpente. Tese la manina grassa per scostare il tendaggio e un’altra mano afferrò la sua, tirandola dentro.  E cadde sulle lenzuola candide come se facesse un tuffo in mare e in piena allegria lei e il marchese si uinirono ridendo; e ridevano delle pene inutili, del desiderio e della vita che tornavano, come sempre tornano se uno vuole, dei tradimenti sciocchi e inutili, delle sofferenze che ora, lo vedevano bene, erano un nonnulla.

Poi, dopo l’amore, il marchese, affondato tra le braccia della moglie, mormorò del suo risveglio, come da un brutto sogno.

Non era stato, no, come una torcia accesa nelle tenebre, o come il sole all’alba, bensì qualcosa di molto più radicale; non una luce dall’esterno a diradare un errore, ma più una ricostruzione rapidissima; un essere rimesso a posto pezzo per pezzo. Mentre quella sera faceva l’elogio della durata e della certezza davanti all’amico Lancia che sembrava sprofondare sempre di più nella sua sedia emanando intorno a sé buio, che spegneva la foglia oro di braccioli e schienale, aveva sentito di salire verso l’alto, insieme al calice col quale stava incitando al brindisi, e intorno c’erano bisbigli lieti e occhietti approvanti, mentre si alzavano le perdute cose e ritrovava tutto ciò che aveva creduto morto e finito. In un gran marasma aveva sentito come se qualcuno gli staccasse la testa, la ruotasse e la rimettesse sul collo, di modo tale che aveva visto sotto una diversa angolazione. O meglio, come se un architetto chiudesse una finestra su una parte e la aprisse in quella opposta: tutto era cambiato in un lampo.

E questa visione nuova di un attimo tanto l’aveva messo sottosopra che era svenuto; ritrovandosi poi nel letto con una gran forza e vita che scorreva veloce, carica di sangue, in tutto il corpo.

E quando, poco prima di Natale, nove mesi dopo nacque Salvatore, tutti fecero visita per rallegrarsi con donna Cubitosa che nel gran letto da puerpera splendeva come un sole sotto ai ricci neri, più grassoccia che mai, mentre nessuno badava al marchese seduto presso la moglie. Ma lui era contento così, perché sapeva che era giusto e la chiamava regina, baciandole la manina, e signora del mio cuore. Quando il piccolo Salvatore piangeva, donna Cettina, senza più badare al marchese, lo recava in fretta alla marchesa affinché lo allattasse, anche davanti a tutti. Gli altri quattro figli giocavano rumorosamente nelle stanze adiacenti.

Lo zio del marchese era morto per l’Immacolata, spegnendosi senza dolore nel suo letto come una candela. L’eredità che sarebbe giunta avevano deciso che sarebbe andata sulle terre di Giarratana, per rifare le canalette d’irrigazione , le case dei contadini, per lo scavo di un altro pozzo più profondo e il restauro della casa padronale.

La vigilia di Natale vennero in visita il principe Lancia, il barone di Ripasaltas e il conte d’Ingalbes, recando un dono per il piccolo. Donna Cubitosa non li vedeva dal pranzo che le aveva salvato il marito. Sembravano prosciugati, il principe pieno di rughe intorno a occhi e bocca, il Ripasaltas con un’espressione di sussiego e disprezzo, come se altre non ne conoscesse, e il d’Ingalbes magrissimo, con i vestiti che gli cadevano di dosso.

Sembrano morti, si disse donna Cubitosa stringendosi al seno Salvatore e sbirciando il marchese sorridente. Sentendo in pieno tutta la benedizione che l’aveva coperta nel periodo tremendo della malattia di suo marito, sentendo anche che doveva ringraziare con qualche offerta il Qualcuno che da Lassù li amava, pensò a cosa poteva fare per i tre gentiluomini. Per il Ripasaltas una raccomandazione al Vicerè di Spagna che lo portasse ancora più in alto a corte, visto che mai era contento della posizione che occupava, pur essendo notevolissima; per il d’Ingalbes avrebbe disposto, a vita, l’invio del pranzo e della cena che il monsù preparava per i marchesi; e per il Lancia? Per quanto cercasse in cuore, non trovava nulla che si potesse fare per lui, nulla che potesse essergli gradito o desiderato, avendo egli già conosciuto e sperimentato tutto e di tutto essendo deluso e annoiato.

E mentre sospirava di pena lasciandosi andare indietro sui guanciali, credette di cogliere negli occhi del principe fissi su di lei una luce strana, che non voleva chiamare in nessun modo.

Lui tornò ogni giorno, a orari imprevisti, e quella luce strana era sempre più forte, finchè, un mattino che il marchese era stato chiamato da Gerlando per ricevere gli amministratori e lui e lei rimasero da soli, la luce invase il letto della marchesa come un’ondata e nell’ondata c’era il principe che le si faceva addosso mormorando parole dolci, e si alzavano stoffe e si levavano panni.

Donna Cubitosa non aveva mai detto no in vita sua, se non alla morte quando il marchese era malato; e non aveva ricevuto un No l’unica volta che aveva supplicato in vita sua, quando aveva chiesto per il marito.; non conosceva il No. Restò quindi immobile e senza fiato, accogliendolo tra le braccia, come accoglieva tutto e tutti, anche i dolori che le aveva inferto il marchese, stringendolo piano con tenerezza, come faceva col piccolo Salvatore. Il principe piangeva senza singhiozzi, con lunghe lacrime che scendevano fino al collo della camicia; ma non sembrava disperato, piuttosto commosso, o liberato di qualcosa.

Da quel giorno, di tanto in tanto, il principe la visitava. Il marchese non sospettava nulla: riceveva lieto l’amico, ma non passava più notti intere a giocare a faraone, e dopo una mezz’ora di conversazione si allontanava a curare i suoi affari, a ricevere amministratori e capomastri, a visitare feudi, lasciando l’ospite alla moglie.

Gerlando e le cameriere fingevano di non vedere, solo un sorriso smorzato faceva abbassare gli occhi di Cettina, che sembrava quasi soddisfatta quando incrociava il visitatore.

Il principe arrivava cupo e pieno d’ombra; e andava via lieto. La marchesa lo accoglieva come quel giorno prima di Natale. Sorridevano sciogliendosi. Cubitosa non si chiedeva nulla, non voleva nulla, non voleva neppure dolci parole e tenere, false promesse d’amante. Capiva che lui cercava conforto e sostegno andare avanti, niente di più, e non glielo negava. Di vita lei ne aveva tanta: che gli altri attingessero.

Il pranzo dei morti, 14

-Principe., amico mio, vi sembra il caso, proprio ora che stiamo per essere giudicati e ammessi al Suo cospetto…-il d’Ingalbes si alzò a prendergli la mano.

Ripasaltas iniziò la sua opera consueta di mediazione

-Eccessivo, credo, il pensare a un tribunale, ma certo, ehm, capisco, capiamo…le donne, nevvero? Una delusione perenne, non ve n’è una che regga all’idea che ce ne siam fatta…e tutte le lenzuola spiegazzate, oh quante!, spiegazzate invano…e purtuttavia, vedete, principe…-

-No!-il marchese di Carabas quasi gridò, sussultando come per un singhiozzo- No!-

tutti tacquero stupiti

-No!- per la terza volta. Il marchese fissava come incantato il calice pieno del vino color rubino di Giarratana, feudo portato in dote graditissima da sua moglie –C’è qualcosa che dura, e lo dimostra questo pesce: io vi sento cura e attenzione, e dolcezza, come una mano materna sul capo. Qualcuno si prende cura di noi e provvede, anche qui su questa bella terra e questa è immagine della Divina Provvidenza che ci attende!-

-Che intendete?-

– Chi ha cucinato questo pesce, chi l’ha voluto su questa tavola, chi ricordava la ricetta di un’epoca antica, l’avete detto tutti voi, terribilmente antica, voleva che riscoprissimo la dolcezza della vita su questa terra a dispetto di tutte le illusioni e le delusioni che il principe qui presente troppo patisce, invece di sorriderne, come sarebbe giusto! Dico- e si alzò col calice in mano- Qualcosa dura, sotterraneo, misconosciuto, ma dura e non so cos’è. Brindiamo ad esso!-

tutti si alzarono perplessi, tranne il principe Lancia.

-Sbagliate, amico mio, sbagliate, ma fate come volete. Brindo a ciò che dura, e che sempre ritorna come questo sole che rugge nei piatti sotto questo commovente pesce cavaliere-

Svuotò d’un fiato il calice e crollò seduto a testa bassa, quasi che quei brevi discorsetti fatti l’avessero svuotato d’ogni energia. E questo accade quando si dicono le grandi verità, ma lui non poteva saperlo, avendo vissuto sino ad allora nella menzogna.

– Una sola cosa –sibilò il principe fissando il marchese –una sola cosa è durata nella vostra vita e non per merito vostro, né delle vostre ricchezze: vostra moglie donna Cubitosa che vi ama, nessuno sa perché. Ma tanto a voi non importa e di lei non vi siete mai accorto, e neppure… – si fermò appena in tempo.

Il marchese non lo ascoltava, o lo ascoltava con una minima parte di sé stesso, perché stava scostando la salsa del pesce con la forchetta, e scostava, scostava come se cercasse qualcosa. Poi bevve un altro calice di vino e crollò con la testa nel piatto. Come morto.In un lampo dieci persone, tra convitati e maggiordomi soccorsero il marchese con sali, cordiale e pezze fredde; in batter d’occhio lo trasportarono nel suo letto e mandarono a chiamare donna Cubitosa.

Di nuovo sola, si disse lei inspirando forte l’aria con la mano sulla maniglia della stanza del marito. Di nuovo sola con lui. Lo sentì respirare appena entrata. Prima, molto prima di essere vicino al letto. Piano, ma respirava, ed era come un macigno tolto dal cuore. Si coprì di sudore in tutto il corpo e di lacrime nuove sul viso.

Marchesa, marchesa, marchesa.

-Gerlando mi occupo io da sola del marchese. Voi provvedete con Totò che i nostri ospiti tornino intavola per il dessert. Badate al vino dolce. E voi, signori- e alzò gli occhi sui tre gentiluomini, che vi caddero dentro –voi che mi avete validamente aiutato in questa folle impresa, avrete sempre un posto nel mio cuore, per quel vale. Sono certa che tutto andrà per il meglio. Non temete per il vostro amico. Egli guarirà e sarà anche per merito vostro-

Il principe Lancia si chinò profondamente, e profondamente commosso. Noblesse oblige, pensò, eccellente davvero, marchesa. Ma non lo disse e si limitò a baciarle la mano con trasporto.

E così i tre amici se ne andarono, turbati non solo per la sorte del marchese, ma anche per ciò che ognuno aveva appreso degli altri. Si sentivano come denudati e camminavano a capo chino verso la carrozza del principe che li avrebbe accompagnati a casa. In silenzio salirono, in silenzio la vettura si mosse senza scosse, lasciandosi alle spalle il mare nero con i suoi misteri, i suoi cavalieri, i suoi odori grevi che salivano alle sale del marchese,. Si spalancò la notte nera di Palermo, rotta appena qua e là dai doppieri dei valletti davanti ai palazzi nobili. Le lanterne scavavano i volti dei gentiluomini senza più parole, facendoli scheletri.

Il pranzo dei morti, 13

Sopra i candelabri solo gli occhi del Lancia erano fissi sul marchese e bruciavano, e non volevano essere notati nella loro forza. Il marchese si era un poco riscosso dalla debolezza precedente e voltava ora qua ora là il capo a seguire i discorsi dei commensali, via via prendendo vigore. Giunse persino a raddrizzare le spalle e a chinare il capo verso il piatto incuriosito.

Poi si girò in ascolto di uno strano clamore che veniva dalla strada sul porto, un canto disordinato di bambini, e incontrò gli occhi del Lancia. Erano così forti che per fuggirli taglio un pezzettino di pesce e lo mise in bocca. Il boccone si squagliò all’istante, così dolce, nobile e forte che il marchese ne fu sopraffatto e chiuse gli occhi. In quel boccone c’erano un ritorno e una nuova partenza tutt’insieme, e con un urto troppo forte per lui.

-Alla vostra marchese-il principe alzò il calice pieno di vino rubino con occhi che erano due schiaffi – e alla salute della marchesa-

Il principe aveva riconosciuto il canto che saliva dal porto, e le vocette dei bambini che erano il piccolo esercito di donna Metra. Le strofe strane, così antiche che nessuno sapeva più cosa volevano dire; l’odore mai sentito di quel pesce, e il sortilegio che li aveva indotti a quel pranzo tanto pazzo; non si era anche lui rivolto un tempo, per i begli occhi di una signora sposata, a donna Metra? L’aveva fatto sorridendo di sé stesso, come un gioco, con scetticismo, come per provare che quelle cose non esistevano; E invece quella signora l’aveva avuta, in una notte caldissima di luglio, fra candide lenzuola, solo per scoprire che non ne valeva la pena…che almeno donna Cubitosa non scoprisse mai che non valeva la pena di niente. Che il desiderio esaudito è cosa tristissima: la grande verità che non poteva essere detta, pena l’inaridirsi dei cuori altrui.

La marchesa avrebbe ottenuto ciò che voleva: adesso che capiva la presenza di donna Metra ne era certo. E lui avrebbe aiutato chi aveva aiutato lui, tacendo ogni disillusione. Stranamente sentiva che quella ridicola Cubitosa, così fissata nel voler curare un marito che mai l’aveva onorata, nemmeno come madre, era superiore a lui, con tutta la saggezza dei suoi studi filosofici; e ci stava male, malissimo, nel non essere il più saggio. Ancora più male perché la donna che sentiva superiore era una creatura priva di razionalità, puramente istintiva come un animaletto. Lei e gente come donna Metra lo turbavano e lo intristivano, erano il contrario di quel che lui voleva essere: razionale limpido e scientifico, mentre loro erano così vicine al fondo materiale del mondo, a quel guazzabuglio di forme vitali in cui operavano i loro sortilegi. Era solo; superiore e solo, non c’era rimedio.

Si guardò intorno: tutti mangiavano in silenzio, mentre l’aroma straniero si alzava dai piatti da portata, lento, sontuoso, imperioso e presidiava l’aria e i cuori, accompagnato dai mormorii di lode del d’Ingalbes e del Ripasaltas. Il marchese non parlava e masticava lentamente, con occhi straordinariamente vivi. Stava ben dritto e guardava qua e là con curiosità, come se tutto fosse nuovo.

Infine il malato proruppe

-Quanta bellezza, quanta bellezza ovunque. Sono stato sciocco. Siamo stati sciocchi- Invece di pensare alla punizione, avremmo dovuto pensare al premio. Il castigo, sì certo. Ma se il castigo fosse una bellezza e una bontà soverchiante, che ci schiaccino con la loro potenza? Non una punizione in senso classico, ma un chinarsi davanti a una bellezza che non avremmo mai immaginato…angeli color porpora, o blu imperiale,  intorno a una luce dentro al trono più bello che si possa immaginare. Niente occhi, né bocca, né viso o corpo, solo una presenza assoluta, e noi che cadiamo in ginocchio. Qualunque purificazione proceda questa visione va bene-

Tranne il principe, tutti gli altri si misero a descrivere ciò che immaginavano e auspicavano. Il marchese pensava a castelli di gioia, di una gioia molto rossa, capace di scorrere come un ruscello; e la quiete dorata di chi è immerso in Paradiso come una conchiglia nella sabbia del mare. Il pesce delizioso era anticipazione del paradiso che li attendeva, e il vino, oh il vino! Era l’estasi permanente in cui avrebbero vissuto.

– Ma prima, amici miei, ci sarà, ci dovrà essere una qualche prova- fece il Ripasaltas – Io edo una conversazione tra gentiluomini col Buon Dio-. Seduti a un tavolo, con un calice di vino davanti, ci spiegheremo per bene. Chiederò conto dei torti ricevuti – ( e qui, a onor del vero, egli non pensava solo a certi rifiuti di bei ragazzi, ma anche a delusioni della sua carriera politica, a certi dinieghi che avevano rallentato non poco la sua nomina)- Che mi dimostri, come sia possibile che certi dolori e molte amarezze siano stati provvidenziali. Avrà in suo bel da fare. Talvolta non c’è proprio spiegazione ai torti che la vita ci infligge, e in nessun modo possiamo dire che ne sia venuto un bene-

– Barone, negherete a Dio la razionalità?- fece il d’Ingalbes –la razionalità divina è diversa dalla nostra, ma di certo Egli deve aver ben predisposto tutto. Meglio pensare, come faccio io, ad una condivisione di cose belle senza discussioni filosofiche-

Tutti presero una seconda fetta di pesce spada. Il principe, avendone masticato con calma un boccone,  infastidito da quei discorsi intorno a lui, che gli parevano troppo infantili, esclamò con voce colma di collera repressa a stento

-Nulla di ciò che voi dite amici miei! Non le gioie sovrumane del Carabas, o il conviviale incontro del Ripasaltas. Il Dio che ci aspetta io vorrei sottoporlo a un vero tribunale. Non dovrà Egli spiegare da buon amico, ma presso lo scranno di un giudice, che sarò io. Dovrà rendere conto di ciò che mi ha fatto. Gli amori che non durano, le passioni che si spengono, i desideri che non si avverano o che si rivelano eccessivi e, in generale, il fatto che nulla duri, mai, in nessun modo. Che niente sia davvero del tutto identico a come lo avevamo immaginato.

Siederà come imputato e poiché nulla potrà giustificare ciò che mi ha fatto…. –

Gli altri lo guardarono a bocca aperta. Senza dubbio quanto detto era empio, ma non questo soltanto turbava i commensali, bensì il fatto che il loro amico si manifestasse del tutto diverso da come si era mostrato loro sinora, vale a dire mondano e felice o, se non proprio felice, sereno, razionale e saggio. Nessuno osava fiatare, per non vedere di più dell’amico, o di chi tale avevano creduto sino a quel momento; volevano continuare a crederlo uguale a prima e quindi amico. Nessuno poteva intuire che l’aver anche solo sfiorato con la mente il mondo di donna Metra, con i suoi ragazzini, le pozioni, le erbe e le parole antiche che lo formavano, lo aveva sconvolto e reso incapace di controllarsi.

Il pranzo dei morti, 12

Il d’Ingalbes scosse il capo

-E quindi sarete presto costretto a un mondo d’orrore, amico mio? Un mondo in cui vi circondi tutto ciò che non vi è piaciuto in vita? Troppo semplice, troppo meccanico…il Buon Dio è più complesso di come noi creature lo pensiamo, Sarebbe come dire che il principe sia condannato a vivere in mezzo a selvaggi perché troppo ha amato arte e cultura e civiltà; e che il nostro buon Ripasaltas debba scontare decenni in un mondo popolato solo da donne, lui che vuol per sé i più bei ragazzi di Napoli-

Tutti sorrisero e brindarono

—Troppo meccanico- concordò il Ripasaltas .Il nostro buon d’Ingalbes può stare tranquillo: nessuna festa in camicia di tela. E io nessun mondo popolato di donne soltanto. Sarebbe troppo per me e il Creatore lo sa, avendomi ben fatto lui così. Credetemi anche io avrei voluto essere diverso, come voi marchese che dianzi lamentavate l’esser ricco come un peso. Allo stesso modo io lamento il mio gusto per gli uomini: è come essere flagellati dalla tempesta in mezzo al mare senza trovare un porto–

Il principe Lancia scosse il capo, vuotò il calice di vino come per darsi forza e iniziò a parlare con forza crescente. Io, il più colpevole, disse, il più odioso; io che ho sempre cercato di essere il più colto, il più elegante, il più tutto; il cui peccato mortale è la superbia; io allora pure scenderò in qualche mondo di derelitti, costretto a vivere di espedienti? No signori, il buon Dio, non è così meccanico, come giustamente sostiene il d’Ingalbes; Dio è più sottile e lungimirante. Fateci caso: in ogni nostra previsione circa ciò che ci attende, noi tutti pensiamo a un abbassamento, a un mondo inferiore al nostro.

E se invece fossimo umiliati non con l’abbassarci, ma con l’innalzarci? In un mondo regale infinitamente superiore al nostro, dove saremmo l’ultima ruota del carro e sperimenteremmo il disprezzo che abbiamo in vita esercitato verso altri? Non sarebbe più giusto?

Forse, signori, amici miei, non c’è più molto da immaginare, e lo stesso immaginare è forse ulteriore peccato. Affidiamoci e godiamo di questo banchetto che chissà quando capiterà ancora, in una notte dolce come poche, in questa casa bella come nessun altra. E voi, marchese, voi che ci ospitate però non onorate questo convegno come si deve: non avete toccato il maialino.

-Ho sentito di nuovo mancarmi stomaco e cuore…-

-Marchese! Amico nostro!-

-Credetemi, è più facile non mangiare, è così dolce..ci si sente svanire e ci si riposa da sé stessi-

Del gran pericolo in cui versava il marchese, di tornare allo stato precedente il pranzo, donna Cubitosa non sapeva nulla. Quasi svenuta nel suo salottino, sedeva senza nulla vedere. Cettina le aveva portato il cordiale che le aveva impedito di perdere conoscenza e le aveva dato un’ebbrezza morbida in cui si vedeva vedova, brutta e disordinata, circondata da selvaggetti che erano i suoi figli, senza l’eredità dello zio, sotto al ritratto del marito che la guardava elegante e severo; e poi vedeva tanti occhi di pesce spada, fatti di neri cerchi concentrici che tiravano giù dentro al loro nero disperato. E mentre singhiozzava senza più ritegno, tra le lacrime vide dei gorghi di acqua così blu da sembrare nera,. Erano i gorghi che si dicevano nello stretto di Messina e, al centro del gorgo più fondo, quello forse che aveva perduto i compagni di Ulisse, un pesce spada che stava dritto in piedi e aveva una coroncina d’oro sulla testa

-Aspettami Cubitosa! Aspettami, abbi fede!- e tutto profumò di mare, grondò di alghe che avevano piccole stelline ai bordi.

Si addormentò felice, come se qualcuno le stesse cantando una ninna nanna.

-Amico! Amico mio! Che senso ha? Siete già morto! E non mangiando offendereste Colui che ci ospita, il padrone di casa che è padrone di tutte le case- esclamò il Ripasaltas, cogliendo una luce di ammirazione negli occhi del principe Lancia.

Mentre così parlavano un dolce aroma di spezie si diffuse nella sala. Le porte vennero spalancate e

-Cos’è questo profumo? Mi ricorda …-esclamò il marchese prima ancora che entrassero i maggiordomi con i vassoi- c’è il mare e qualcosa di più del mare, c’è un invito al viaggio, e poi, e poi…come si può descrivere un profumo? Amici miei aiutatemi!-

Totò entrava con gli altri due maggiordomi recando i vassoi dove erano adagiate le fette di pesce spada coperte da una salsa appena brunita e coronate a fettine d’arancia. Quando ogni piatto ebbe la sua fetta, circondata da un paio di cucchiai di caponata, si sprigionò un aroma meraviglioso dentro il quale per un attimo caddero tutti i cuori

-Il vostro monsù, amico mio, è il migliore di tutta Palermo- esclamò il d’Ingalbes.

-E’un’artista, un profondo conoscitore di storia e storie. Quest’equilibrio di aromi non è roba dei nostri tempi, viene da molto lontano- il Ripasaltas con le parole sapeva far tutto e creare ogni illusione, ma stavolta la sua voce vibrava di emozione; e continuò dicendo che quell’aroma veniva da altre età, più forti e coraggiose, più disposte al viaggio e alla lotta; non la loro misera epoca di pirati barbareschi straccioni e nobili che al massimo arrischiavano una passeggiata sotto la palazzata a mare.

E il d’Ingalbes contraltava enumerando ciò che distingueva nella salsa che aveva subito assaggiato, origano, e noce moscata, di certo, due fra gli aromi più corroboranti, e arancia, da qualche parte, il succo d’oro degli dei; e poi qualcos’altro di misterioso e nuovo che non si lasciava definire.

Il pranzo dei morti, 10

-Un brindisi, carissimo e vi dirò oltre-

Non per sempre, solo come purgazione, una fase di distacco lento dal mondo al quale tanti legami avvingono il morto che già agogna alla beata condizione celeste. E come sancire il distacco definitivo e l’entrata del mondo celeste? Come se non con un banchetto che riunisca le persone più vicine al morto che siano anch’esse nell’Aldilà? Un brindisi, un pranzo; il fior fiore della compagnia, i cari amici che ci furono di scorta nella vita terrena e il fior fiore di questa terra benedetta che è la Sicilia; il massimo fasto della carnalità e della materia nel momento dell’addio; come l’ultima notte con una donna amata, o come …e qui un piccolo calcio del d’Ingalbes interruppe il discorso del principe, che già stava commuovendosi sulle bellezze del mondo materiale, tanto da farlo vagheggiare a chiunque, mentre il convegno presente tutto richiedeva meno che di sottolineare la carnalità che il marchese sembrava negare fieramente. Forse, ragionava il d’Ingalbes, troppo di sé le aveva tributato finora, e troppo poco ne aveva tratto. Come lui medesimo, d’altronde, che se si ritrovava povero era per aver troppo amato il mondo e aver sperato che gli desse prima o poi quelle gioie che sempre annunciava.

In quella si aprirono i battenti e Gerlando in livrea d’onore, blu oltremare con i galloni e i bottoni d’oro, s’inchinò e annunciò

-Lor signori sono invitati a prendere posto. Inizia il pranzo che il Monsù di questa nobile dimora ha allestito in onore del Marchese di Carabas-

Sedettero ai quattro lati dell’enorme tavolo. Nei piatti i soli avevano una faccia dipinta dentro il cerchio e i raggi come tentacoli; sembravano cantare e ridere alle foglie nel bordo. E su quei soli il maggiordomo depose arancine tonde e dorate che imitavano i soli e cantavano sotto i denti al primo morso,  spalancando sotto la crosta croccante il riso caldo giallo di zafferano e spezie, profumato della carne nascosta nel cuore che si annunciava e non si mostrava subito. E si proseguiva a mordere per raggiungerla, tenerissima, tagliata a piccoli cubi legati ai piselli.

-Marchese, non assaggiate?- chiese sorridendo il principe Lancia –Questo arancino è immagine vivissima di quanto abbiamo appena passato: la scorza fritta che crocchia sotto i denti è la durezza della morte, che esiste solo per schiudere il cuore saporitissimo della vita spirituale. Assaggiate, è un ordine-

-Non posso, non ho più lo stomaco- il marchese era grigio in volto-

-Neppure noi, amico mio, abbiamo più lo stomaco!- il Rioasaltas alzò davanti al volto un arancino –eppure vedete? La morte ruvida, dura, brutta è la crosta; un attimo e si rivela l’interno magnifico, ricco e profumato: la vita presente dopo la morte, tutti insieme- e addentò la crosta dell’arancino con uno sguardo estasiato da innamorato.

– Davvero amico mio eravate destinato alla corte del re, con la vostra eloquenza- sorrise il marchese. Ma era un sorriso difficile, perché da tanto non sorrideva che aveva perso l’esercizio.

I tre invitati fingendo di conversare lo spiarono dischiudere la bocca e dare il primo morso. Un morso piccolo piccolo, che tuttavia produsse un suono che sembrò un inno di vittoria cantato a squarciagola.

Totò versò il vino nascondendo la sua gioia e il Ripasaltas lo guardò con desiderio struggente, quindi alzò il calice

-A noi, amici miei! A noi che siamo sempre insieme! A questa bella vita nuova!-

-A noi!- e tutti bevvero.

-Coraggio amico mio, non potete non unirvi al brindisi!-

il marchese con mano tremante alzò il calice e lo posò subito

-Non posso…- mormorò

– Pensate al sangue di Nostro Signore che ci garantì questa vita dopo la morte- gli sussurrò il Ripasaltas –tutto questo che ci è imbandito è santificato e trasmutato. Sembra vino e non lo è, è solo immagine del vino terreno. Unitevi a noi, presto-

Gli altri ascoltarono trepidanti e trepidanti lo videro bere il vino rosso come un rubino, profumato come un fiore. E videro il viso dell’amico prendere una sfumatura più rosta come se il vino bevuto avesse passato alle guance il suo colore

E anche donna Cubitosa, nascosta insieme a Gerlando dietro l’uscio, vide la tinta rosata salire al viso del marito e battè le manine grasse senza far rumore: La vita ritornava, debole e delicata, ma tornava! Potenza del vino di Giarratana, color rubino e profumato di mare e sassi scaldati dal sole! Sangue e vino; il vino che faceva sangue, vivo, ruscellante nelle vene, sangue buono a vivere, a cantare, a mordere, a cadere insieme nel letto.

Guardò Gerlando: il maggiordomo aveva gli occhi pieni di lacrime. Guardò la sala dischiudendo appena il battente: vide il Ripasaltas sfiorare con la mano la natica di Totò mentre gli chiedeva altro vino. E sia! Pensò. Che importanza ha tutto, in fondo? Dalla tappezzeria di seta gli uccellini cinguettavano, i fiori sbocciavano. E sorrise.

I tre gentiluomini con gioia repressa e di sottecchi guardarono il marchese mangiare l’arancino. Aveva iniziato a sbocconcellarlo; ma quando era giunto al ripieno, alla fusione di ragù, carne e spezie, i morsi si erano fatti più veloci, e quasi non masticava più, assorbendolo come una piantina riarsa l’acqua. Quando ebbe finito gli altri tirarono il fiato di nascosto. Totò iniziò a servire il timballo di pasta

.Straordinario questo cibo dell’aldilà, davvero il compendio di quanto di meglio offra la terra…-sussurrò il marchese- sembra difficile che ne avremo di altrettanto buono e spirituale-

-Lasciate fare al nostro Buon Signore- replicò il d’Ingalbes –non c’è limite al suo amore-

Il Pranzo dei morti, 9

Quando Totò entrò nella sala, a piccoli passi discreti, trovò i tre gentiluomini con gli occhi brillanti e divertiti

-Favorite di annunciarci al marchese- intimò il barone di Ripasaltas e le sue parole suonarono come una dichiarazione di guerra alla follia e a ciò che rende brutta la vita.

Sale e salette sul porto tutte accese per l’arrivo di due navi dall’Oriente; vociari lontani di scaricatori e picciotti, tutto sospingeva i tre e li rendeva curiosi, timorosi e tuttavia certi della vittoria. Movimento, flusso e forza intorno a un centro divino, gridava tutto intorno a loro e li faceva sorridere.

Resi così lieti, quando Totò aprì i battenti della sala da pranzo e Gerlando s’inchinò davanti a loro, si fermarono stupiti. Ricordavano la vasta sala, ma non così, con quei girali di acanto verde e narcisi gialli alle pareti e sulla tavola, e identici sui piatti di porcellana; con quei sottopiatti dorati come soli, e quel contrasto feroce di colore, giallo e verde, ripetuto ovunque, che scuoteva per originalità e chiamava alla rivolta, alla partenza dei bastimenti, all’uscita dalla terra delle nuove piante; tutto ciò rinsaldava l’impresa che avevano in animo di compiere.

Un lieve rumore di passi, un bisbigliare sommesso d’incoraggiamento, e il marchese di Carabas fece il suo ingresso. Nulla sul volto di Gerlando rivelava la fatica tremenda di quel percorso dalla camera da letto alla sala, della vestizione, dei lunghi discorsi persuasivi della marchesa per convincere il marito e del quieto, folle mormorio di lui, così spaventoso nel suo delirio

(Un pranzo, con i vostri amici; No! non mangerò, non ho più lo stomaco; e poi sono morto chi volete che voglia vedere un morto? E quali amici poi?

I vostri, il Lancia, Il Ripasaltas, il d’Ingalbes, che morirono ier l’altro in un naufragio durante uno scontro fra pirati barbareschi e flotta trapanese: lo sciabecco che doveva trasportarli a Napoli, dal nostro caro Re, s’inabissò in un batter d’occhio, sfondato da una cannonata.

E com’è che se son morti non li ho avuti accento a me?

Chiedetelo a loro marchese, che ne so io dell’Aldilà?

E’ vero, devo chiedere a loro, chissà dove sono stati messi…mi dovrò vestire, forse.

Certo! E di tutto punto! Quale completo preferite, quello zafferano o quello verde reseda? Zafferano? Gerlando, presto! Redingote, il panciotto con i bottoni di madreperla e le coulottes con la passamaneria verdina! E la parrucca col codino! No, no, marchese, ormai l’avete detto, essi vi attendono, non potete rifiutarvi più. Dovete raccontarvi tutto. Non vorrete andare in camicia da notte!

Sì, devo sapere. Come sarà stato per loro il morire? Lieve come per me o doloroso? Poverini, in tutta quell’acqua di mare…E ci vedremo ora che siamo tutti nell’Aldilà? Mi piacerebbe rammentare con loro la vita sulla terra. E uscire magari per la passeggiata sulle mura: credo che saremo invisibili a tutti. Sì, c’è ancora un po’ di gioia in serbo per me in questa grande nebbia che la morte è…

Di tutto converserete, marchese, a tavola sarete solo voi morti; sarà la vostra cerimonia d’introduzione nell’Aldilà, credo.

Ma non è necessario mangiare, non ho fame, non posso inghiottire: dove finirebbe il cibo, se non ho stomaco? No, non vado, non mi vesto.

Ma la cerimonia di ammissione nel mondo spirituale prevede un pranzo in pompa magna. Un addio al mondo in cui si mangia, poi non vi sarà più cibo. Gli angeli vi metteranno lo stomaco al suo posto solo per questo giorno. Andate, vi aspettano)

 Totò sosteneva il marchese per il gomito, seguendolo nei suoi piccoli passi faticosi. I tre nobiluomini ammutolirono, tentando di riconoscere il loro amico in quel lemure, in quella creatura grigia, fatta di quattro zeppi nuotanti in un vestito sontuoso.

Al d’Ingalbes salirono le lacrime agli occhi e per nasconderle bevve d’un fiato il bicchiere di rosolio che aveva in mano, Ripasaltas serrò i denti e il principe Lancia si precipitò a sostenere l’amico malato.

-Siete voi, siete voi- mormorava rauco il marchese. Tutti quindi si chiusero intorno al malato e vi furono istanti pieni di esclamazioni, riconoscimenti, balbettii, lacrime. Gerlando in mezzo ciò si ergeva come un faro sulla roccia flagellata dalla tempesta. Infine si sciolsero dall’abbraccio e si guardarono

-Come siete belli amici miei! E giovani…-mormorò il marchese accasciandosi a capotavola –davvero ingiusta la morte…-

-Oh, non datevene pensiero!- fece il d’Ingalbes –molto meno di quanto non si tema da vivi. Un tuffo nell’acqua profonda ed eccoci qua-

-Non fu dunque lungo e doloroso per voi?-

-No, carissimo- il principe Lancia si era asciugato le lacrime e sorrideva. Trovando scialbo quanto detto dal d’Ingalbes, lo integrò a suo talento (era da sempre così, s’abbelliva tutto, forte del suo gusto e della sua intelligenza) -Non era bello farsi riempire d’acqua, c’era un senso di oppressione, come una grande mano sul petto che premesse e premesse, ma è stato un battibaleno. Poi è arrivata subito una gran luce beata che ci ha sospinto via in avanti. E per voi, come fu?-

Il marchese fece un gesto vago, a testa bassa

-Un tedio lunghissimo, e quanto più mi annoiavo e tutto diventava grigio, lo stomaco e il cuore si consumavano, come stoffe vecchie nella liscivia. Sentivo la forza defluire. E’ stato terribile. Niente luce, neppure un pochino. Devo essere all’Inferno, credo-

-All’Inferno? Oh no, quello solo per peccatori grandissimi, che si compiacciono anche in morte di ciò che hanno fatto. Noi, amico mio, siamo solo piccoli peccatori; ricordate che ci sentivamo sempre un po’ in colpa?-

Il marchese non era convinto –Perché allora quando siete morti non vi ho incontrato, ier l’altro? Io sono morto già da quindici giorni!-

-Bevete un sorso di vino e vi spiegheremo. Ecco, bravo. Il fatto è che per noi peccatori nell’Aldilà costruito dal Buon Dio, un Aldilà che non è proprio quale la Chiesa Santissima ce lo dipinge in vita, le cose stanno diversamente-

E venne descritto quanto segue, dal principe che sempre nella loro piccola compagnia era stato il più dotato di una sorridente intelligenza che gli faceva accettare la vita con spirito ed eleganza .

Quando si muore, disse, si muore in modi molto diversi. Alcuni vedono la gran luce sospingente e chiamante, altri si spengono come candele al lumicino, piano piano. Ciò comporta un’accoglienza diversa. Chi ha visto la gran luce entra in una specie di festa dove incontra tutti i morti che l’hanno preceduto, dai re ai mendicanti; chi si spegne lentamente viene posto in un grande nebbia morbida, nella quale lentamente emergono, come conchiglie dalla sabbia, gli amici già morti. Il criterio è fondato non sui meriti, ma sul carattere del moriente; per cui l’indole delicata assapora il delicato vapor acqueo, il carattere robusto la luce violenta.

-Per sempre?- la voce del marchese tremava appena.

Il pranzo dei morti, 8

Il monsù aveva dovuto chiedere la ricetta del pesce spada a una vecchia megera nel quartiere della Calispera dietro il porto, con l’unica scorta d’uno sguattero e sotto il giuramento del silenzio; una certa donna Metra (oh, con quale reverenza questo nome aveva pronunciato la marchesa!). Ah, aveva sospirato il monsù,  terra di selvaggi, di gente dal sangue troppo forte, che quando volevano una cosa, non mollavano fino a che non l’avevano ottenuta! Gente alla quale il sangue correva così forte nelle vene da ottundere ogni raziocinio, ogni ragionamento sensato. Pazzi, pazzi e incivili! Fargli lasciare la cucina mentre tutto ferveva e aveva bisogno di lui! Meno male che ciò che volevano erano sciocchezze e non terre o ricchezze, altrimenti chi li avrebbe fermati i siciliani? Sì sciocchezze, amore per lo più, ma anche onore e decoro, e rispetto dei legami di sangue, tutte cose che lui non ammetteva.

Donna Metra gli aveva dato la ricetta. Stecca il pesce con chiodi di garofano, che purificano dalla morte. Marina con succo d’arancia che addolcisce la vita. Soffriggi la cipolla che invita e cuoci nel soffritto il pesce.Poco prima di toglierlo dal fuoco, aggiungi un cucchiaio di miele, che conserva e preserva, noce moscata che parla di favole lontane e invita al viaggio e pepe che scuote.

Quando aveva chiesto in quali proporzioni usare gli ingredienti la risposta era stata:

-Non c’è legge in queste cose, se non quella che il cuore comanda. Ma il cuore, ricorda, deve essere puro e pura l’intenzione. Il cibo non deve essere solo buono e non deve essere solo medicina, ma entrambe le cose. E’ dono divino, arte, magia, e miracolo, tutto insieme. Il tuo cuore è puro, come quello di chi ti manda, e riuscirai.

E il tuo marchese guarirà di ogni malvagio sortilegio. Visto che donna Cubitosa ci tiene tanto a quello straccetto di marito-

E ora, ora che l’ora fatale era giunta, donna Cubitosa quasi singhiozzava alla finestra, sentendo vicina la prova: avrebbe avuto buon esito la serata frutto del suo ingegno e della sua fantasia? Le avrebbe restituito il marito? Oppure, come vedeva bene soltanto adesso, l’indomani tutta Palermo sarebbe stata piena della nuova che il marchese di Carabas era matto e matto sarebbe restato per sempre? il grido dei portieri, il rumore d’una carrozza e il tramestio dei torcieri la strapparono alle sue angosce.  Si asciugò gli occhi con la manica e si avviò incontro ai suoi ospiti.

Il principe Lancia, il conte d’Ingalbes e il barone di Ripasaltas erano nella sala rosa di palazzo Carabas. Illuminata a giorno, sembrava una nave in fiamme lanciata contro l’oscurità che montava dalle finestre sul porto. Nelle ciotole di porcellana si ergevano piccole colline di confetti rosa, nelle bottiglie di cristallo rosolio alla rosa. Tutto era rosa e festoso come sempre, ma si avvertiva una gravità nuova nell’aria, che prima non c’era.

A piccoli passi affrettati, preceduta da un impassibile Gerlando, la marchesa entrò e strappò un sorrisetto al principe Lancia, che in città era noto per la malignità nei giudizi. Senza busto, in abito da casa, a testa bassa: che marchesa era?

-Perdonate la libertà con la quale vi accolgo- disse sedendo al centro fra i tre –ma, confidando nella vostra discrezione e nell’affetto che nutrite per mio marito, devo avvisarvi che egli si trova in una condizione particolare. –

-E’ malato!- esclamò il conte d’Ingalbes, vagamente spaventato dal possibile contagio: come avrebbe pagato il medico? donna Cubitosa scosse il capo

-Non proprio, non in modo tradizionale. Egli sta benissimo, ma, vedete…è difficile dirlo…crede di essere morto-

i tre ospiti sobbalzarono come un sol uomo

-Sì, purtroppo è così. Sta benissimo, ma si crede morto. Dice di non aver più cuore e stomaco. Eppure per il resto, ragiona benissimo e riconosce tutti. Solo, non vuole vivere, perché si crede morto-

-Devo vederlo!- il principe Lancia balzò in piedi

-Aspettate principe! Devo prima spiegarvi il motivo per cui siete qui. Dovete fare in modo che egli mangi. Sta benissimo, ma non mangia e diventa sempre più debole. Io quindi vi ho invitato affinché, distratto dalla vostra compagnia, pranzi come si deve, come una volta. E perché ciò accada, voi tutti dovrete fingere di essere morti-

I nobiluomini la fissarono allibiti. Il conte d’Ingalbes fece un gesto di scongiuro e scosse il capo.

-Aspettate, aspettate prima di rifiutare! Il marchese non vuole cure, né prediche, né di sentirsi dire che non è vero quanto lui crede di sé: se vogliamo che mangi e che dunque si salvi, deve avere intorno suoi pari, suoi simili. Non impariamo tutti dai simili, dai buoni compagni di vita, di strada? Da soli cosa impareremmo mai? Egli dunque, deve imparare di nuovo a mangiare, il che significa poi imparare a vivere. Se lo amate come avete dimostrato sinora, continuate a farlo nella cattiva sorte. Fingetevi morti, usate la vostra fantasia e rallegratelo: il cibo verrà da sé e mangiando, tornerà alla vita solita. Perché il cibo è vita, non altro. Vi prego quindi di immaginare davanti un’aldilà che egli possa condividere, se potete, e di rallegrarlo della nuova condizione-

I tre si guardarono muti, poi il principe Lancia mormorò, come a sé stesso

-Sarebbe anche divertente. Ognuno fingererebbe una sua propria condizione ultraterrena, quella che la sua vita gli ha preparato, giacchè ognuno di noi sa cosa ci stiamo preparando per quando saremo dall’altra parte, non è vero? E nessuno di noi pensa di andare dritto in Paradiso, come se fosse stato un santo, non è forse vero? Già il Purgatorio sarebbe tanto, per gente come noi! Forse ci varrà anche come confessione, davanti al Buon Dio, con buona pace dei preti che ci circondano, sempre più inutili! –

il barone di Ripasaltas scosse il capo

-sarebbe facile cadere in contraddizioni di ogni genere che il marchese non mancherebbe di rilevare. Dovremmo concordare bene…-

-Io adesso vi lascio- disse la marchesa alzandosi –decidete liberamente, secondo coscienza. Fra un quarto d’ora manderò Totò e a lui comunicherete la vostra decisione. Qualora decideste di stare al gioco e di fingervi morti, dirò al marchese che siete morti in naufragio, mentre vi recavate a Napoli, a presentarvi al nostro buon, nuovo Re. Buona serata, signori, e grazie, qualunque cosa scegliate di fare-

E negli occhi di lei brillò come una sala sfolgorante di luci, luci di dolore e lacrime, ma anche di pietà per quei tre signori ai quali tanto di ovvio era stato necessario spiegare, la grammatica dell’amore persino; e anche luce di condiscendenza, di abbassamento e tristezza per l’essersi abbassata tanto. Ma nessuno di loro pensò questo, o volle pensarlo nella sua interezza; solo si accorsero che la marchesa aveva occhi bellissimi, fra ciglia lunghissime, nei quali si poteva cadere e volare; e pure pensarono che era giovane, giovanissima. La videro andar via, un poco traballante sui tacchetti di seta, con un sentimento nuovo di ammirazione.

Scese il silenzio nella sala rosa e dorata. Nessuno parlava, né guardava gli altri, bensì un punto nel pavimento di ceramica che sembrava a ciascuno particolarmente interessante. Infine il principe sospirò, quindi sorrise

-Curioso che sia capitato proprio a lui, nevvero? A chi più di ogni altro nella nostra bella compagnia ci sospingeva verso le avventure, i lidi ignoti, la bella Parigi. Come se avesse esaurito tutto e ora niente lo tenga fra noi-

-Forse noi tre abbiamo ancora motivi per lottare, egli ha sempre avuto tutto- il conte d’Ingalbes mesto pensava a sé e alle privazioni nascoste cui si sottoponeva ogni giorno, peggiori d’ogni battaglia per gente come loro.

-Curioso, sì. Ma è sempre stato il più malinconico di noi. La vita non era mai abbastanza per lui. Dunque la lascia, come si lascia un’amante che ci ha tradito- mormorò il barone di Ripasaltas, che poi si riscosse con fierezza, pensando che doveva allenarsi a sconfiggere le ostilità, che fossero a Palermo o Napoli, nelle vesti di un amico malato di ente o di intrighi di corte –Ma non lo permetteremo!-

-No!- concordarono gli altri

-La follia non ci toglierà l’amico!-

-No!-

balzarono in piedi unendo i bicchierini di rosolio, quindi il principe Lancia scrutò il viso degli altri due

-La sua stanchezza è anche la nostra. Il suo tedio è anche il nostro. Ma non ci siamo ammalati perché avevamo altre cose da desiderare davanti a noi, come l’isola agognata davanti alla prua di una nave. Questo dobbiamo ricostituire in lui stasera, la direzione verso una meta. Prima mostreremo di essere come lui, vale a dire morti, poi lo indurremo a mangiare e, quando avrà mangiato legandosi di nuovo alla linfa della vita, instilleremo nel suo cuore il desiderio di qualcosa. E avremo vinto-

-Che diremo dell’esistenza da morti, che grazie al Buon Dio ancora ci è ignota?- il d’Ingalbes non era molto convinto e il Ripasaltas, che in pochi istanti aveva concepito un piano, gli pose una mano sulla spalla dicendo

– Stabiliamo di essere morti nel naufragio d’una nave per Napoli. Stabiliamo di essere tutti al Purgatorio, grazie alla divina bontà che ci ha evitato l’Inferno. Il Paradiso non sarebbe credibile per gente come noi e l’Inferno ci toglierebbe la possibilità di parlare serenamente. Dunque Purgatorio. E dobbiamo mantenerci la possibilità di immaginare un Purgatorio personale a ognuno di noi. Dobbiamo avere un margine di libertà, altrimenti sarebbe facile per noi cadere in contraddizione. Ora possiamo fare che nel Purgatorio ciascuno di noi abbia una punizione diversa, isolato dagli altri?-

il conte d’Ingalbes tremava di sdegno

-No no no no! Nessun contatto fra cibo e Aldilà! Nessun legame possibile! Aiutiamolo sì, ma senza pranzo. Torneremo domani mattina-

L’esclamazione cadde e provocò un silenzio profondissimo, nel quale si udirono solo i richiami lontani dei marinai dal porto e sembrarono come un grido di guerra. Tutti riconoscevano in cuor loro la verità di quelle parole; e tuttavia qualcosa non andava…Forse fu per il piacere del bel gesto, di fare bella figura; oppure colse l’eccessiva logica di quelle parole; ma il Ripasaltas dopo qualche istante mormorò pensieroso

-Non so, siete nel giusto amico mio, certo, ma..ma non è come dite! O meglio, è come dite secondo ragione, non secondo verità, perché sapete che verità e ragione non sempre coincidono. Se seguite il cuore, il cuore di cui nessuno più oggi parla, vederete che non possiamo andarcene così questa sera. Avrebbe il sapore dell’assassinio- e tacque soddisfatto. Aveva posto il dubbio senza prendere posizione; lasciare aperte tutte le strade, questa era la politica. A corte, si disse, non avrebbe certo sfigurato.

Di nuovo il silenzio e nel silenzio marinai e onde brevi che comandavano Partite! Partite, presto!

Il principe Lancia lo guardò ammirato e lo seguì nel ragionamento

-Ricordo certe storie dei precettori e delle balie, su Persefone che mangiò tre chicchi di melograno nel regno di Ade e per questo fu legata per sempre al regno dei morti e non potè tornare da sua madre Demetra. A nicaredda! strillava la mia vecchia balia, troppa siti avvi! Dunque si mangia nel regno dei morti.

Il nostro pranzo di stasera potrebbe essere l’ultimo insieme per prendere congedo dalla terra e passare dall’altro lato. In fondo nella storia che diremo siamo morti insieme, come abbiamo vissuto insieme. Un ultimo pranzo per salutarci prima di avviarci alla punizione individuale. Gli arancini del monsù possono ben passare come gradino da ascendere per avviarci all’aldilà, dove gusteremo il cibo spirituale che trascende il cibo di questa terra.

E la punizione di ciascuno sarà quel che a ognuno verrà in mente. I nostri peccati sono così diversi, signori- e qui una luce brillò negli occhi del principe di Lancia, che ben conosceva i gusti del Ripasaltas per i bei ragazzi- sono così diversi, che non sarà difficile immaginare e favellare di condizioni del tutto personali. Voi, caro conte- e si rivolse al d’Ingalbes con un sorriso –cercate di vedere in altro modo la faccenda. Non sarà un’offesa al cibo, ma la sua esaltazione. Conosciamo bene l’abilità del monsù di questa dimora. I suoi arancini restituiscono l’immagine dell’Eden, glorificano la bellezza originaria della terra prima del peccato originale. Stasera sarà il cibo prima della caduta per essere ammessi alla vita eterna.

Tentiamo signori; glielo dobbiamo e lo dobbiamo a questa povera donna che in fondo ama suo marito e lo sta scoprendo soltanto adesso. E, mi raccomando, iniziamo dal vino!-

Quando Totò entrò nella sala, a piccoli passi discreti, trovò i tre gentiluomini con gli occhi brillanti e divertiti

-Favorite di annunciarci al marchese- intimò il barone di Ripasaltas e le sue parole suonarono come una dichiarazione di guerra alla follia e a ciò che rende brutta la vita.

Il pranzo dei morti, 6

Donna Cubitosa entrò in cucina .Là le sembrava di stare nella radice delle cose. Per arrivare in cucina bisognava scendere di mezzo piano le scale di servizio dell’ala est e si arrivava subito in un enorme sala seminterrata, che aveva quattro finestrone poste in alto, come pentoloni che rovesciassero non minestre, ma fiumi di luce, non sufficienti tuttavia a fugare l’oscurità dagli angoli. Un enorme camino a destra dell’ingresso, i fornelli a sinistra e poi tavoli, tavolini, stipi, appendini pieni di mestoli e casseruole e da una cosa all’altra un continuo via vai di persone che nell’enorme ambiente sembravano stranamente minuscole, sguatteri, cuochi, pasticcieri, e, circondato da un nugolo di sotto cuochi, il monsù che costava la rendita del feudo di Geraci e che era ritenuto il migliore della Sicilia occidentale.

La marchesa lasciò entrare in sé la strana pace di un luogo tanto pieno di attività. Si stava bene là sotto. Era un grosso ventre confortevole che partoriva ogni giorno la vita della dimora, pensò la marchesa, quello da cui suo marito aveva reciso ogni legame. Lo ristabilirò, si disse lei, masticando un tozzo di pane, lo aggancerò di nuovo alla vita. Il Monsù le fece la reverenza

-Comandate marchesa-

-Quali sono le pietanze preferite dal marchese? Ordino che le prepariate tutte per il pranzo di sabato prossimo-.

Arancine,  maialino allo spiedo, caponata, pesce spada, sorbetto di gelsomino e sorbetto di limone, babà alla crema con trionfo di frutta, quindi confetteria di ogni tipo, l’elenco era un cantilena magica che già radicava alla vita la marchesa, ancora di più. Arancine dorate col cuore di ragù che si scioglieva in bocca al primo morso come un regalo, il mare di caponata scura distesa nei vassoi , che parlava di strane fusioni e terre lontane rese vicine dalla curiosità e dall’intelligenza, e poi i colori chiari dei sorbetti fatti con la neve dell’Etna che dal cuore dell’inverno parlavano d’estate e rallegravano…questo amava il marchese? Lei non se ne era mai accorta e questo le diede una stretta al cuore perché il monsù non aveva esitato nel fare la lista: anche i sottoposti conoscevano il marchese meglio di lei. I gusti di lui erano una realtà ben nota a tutti nella dimora e ignorata solo dalla moglie, e questo era peggio che ignorare che un marito abbia un’amante, mentre tutta la città lo sa. Anche per questo forse lui si lasciava morire, per l’indifferenza di lei?

Ma non c’era modo di rattristarsi troppo: davvero quel banchetto poteva chiamare alla vita e far sentire forte la ricchezza infinita del mondo a cui il marchese stava rinunciando. Di nuovo il monsù, Marchesa però sarà molto, troppo difficile trovare pesce spada freschissimo qui a Palermo..lo pescano solo nello Stretto. La nostra feluca lo farà arrivare qui in un battibaleno, volerà sino a Messina. Come dev’essere cucinato? E’ il re di ogni banchetto, a lui deve essere accordato il posto centrale e celebrato degnamente con la giusta ricetta…Vedete voi, amico mio, a voi e alla vostra sapienza mi rimetto interamente.

-Madame, sarà il pranzo dell’anno. Sarà meraviglioso-

Una nuova felicità arrivava come una lenta ondata e in questa Cubitosa vedeva gli ingredienti dei cibi salire dal suolo, a uno a uno, e con piccoli fini o tentacoli entrare negli uomini e spingerli verso l’alto, verso il cielo –una profonda unità tra il basso e l’alto, tra il cibo e l’anima che era sacrilego negare. Solo un malvagio poteva restare insensibile davanti a tanta grazia. Poiché il marchese malvagio non era di certo, poteva davvero essere salvato.

E come? si disse lei. Nulla doveva esser dato in sacrificio a quel Qualcuno che da lassù ci ama? Un tributo che ponesse sotto buoni auspici l’impresa?

-Monsù, per il pranzo di quel giorno, fate in modo che ci sia pesce spada e arancini per tutta la gente di casa, fino all’ultimo sguattero-

Nel occhi del Monsù brillò qualcosa, una luce incerta tra ammirazione e commozione

-Sarà come disponete, Vostra Grazia- mormorò nel bellissimo inchino che le fece.

-Gerlando, fate recapitare queste lettere. Sono inviti a pranzo per gli amici del marchese. Per la spesa vi farete dare la lista dal monsù-

Durante i suoi vent’anni di servizio in quella casa il maggiordomo aveva visto molte cose strane, ma nessuna strana come quella. Un invito formale mentre il marchese stava male. Era molto peggio che vedere crollare le mura di Palermo sulle quali il palazzo era costruito: il mondo intero crollava. Qualcosa di questi pensieri si rese visibile sul viso di Gerlando e la marchesa lo rassicurò

-Non temete, non è oltraggio. E’ forse l’unico modo di far mangiare il marchese-

-Ma lui crede di essere morto e a stento beve un poco di brodo-

-Gli faremo credere che lo sono anche gli altri. Sarà il pranzo dei morti. Forse così tornerà a mangiare-

Gerlando esitava e sudava

-Perdonate marchesa. Potrebbe forse farsi subito, con persone diverse…-

Lei capì cosa intendeva Gerlando, e cioè che poteva fingere la stessa cosa lei e sedersi da morta quella sera stessa, iniziando così la cura da subito

-Il marchese in questa casa non ama nessuno. Con le persone che davvero ama e i cibi che predilige, entrambe le cose assieme, tornerà in lui la voglia di vivere. Non c’è altro. Favorite di preparare come apparecchiatura quella del sole radiante-

Gerlando s’inchinò con un sorriso. Non erano crollate le mura di Palermo o quelle della dimora di Sua Grazia, ma altri muri invisibili, ben più saldi e separanti, quelli intorno ai cuori e questo creava una gioia dilagante, come una finestra spalancata su un nuovo, bellissimo giorno. Per la prima volta la marchesa lo aveva ritenuto degno e lo aveva messo a parte dei suoi piani, lui Gerlando semplice maggiordomo. Quando si raddrizzò dall’inchino era più alto e la marchesa colse negli occhi di lui un baluginio nuovo, come un presagio di vittoria, la gioia che annunciava la via giusta.

Il sole. La vita che tornava prepotente. I piatti a foglie d’acanto gialle e verdi e i sottopiatti dorati. Caldo nel cuore e nelle viscere. Tutta la potenza, il calore e la bellezza della vita, la stessa che spingeva i fichi d’India a mettere radici nelle rocce, convogliata in una tavola che doveva resuscitare chi non voleva più vivere né morire.

Il pranzo dei morti, 5

Non basta-si disse la marchesa all’ora di pranzo del quarto giorno. Era davanti allo specchio della sua camera e si vedeva in un modo così nuovo che ne aveva paura. Senza busto il suo corpo dalle spalle all’inguine aveva la forma di un’arancia, rotonda e sugosa; più nessuna forma di vita sotto il seno, tutto un cerchio –così l’avevano trasformata i quattro figli e la sua propria golosità.

Eppure, non poteva dire a sé stessa di non piacersi. Semplicemente era nuova; nuovo il modo in cui le braccia un po’ gonfiate poggiavano sui fianchi e i riccioli scuri si disponevano sulle spalle grassocce; ma non questo le piaceva, quanto la vivacità dello sguardo che restava quello che era sempre stato, vivo e luccicante sopra la nuova massa. Aveva un’aria di Pasqua e Natale; e da lì, da quella linfa che l’aveva gonfiata, poteva e doveva trarre il modo di salvare il marchese.

Perché ciò che era stato fatto finora, ed era tanto, tantissimo, non bastava ancora. Il marchese, tranne qualche guizzo, ancora giaceva senza forze, pallido come la luna; e sempre lamentava fiocamente di essere morto, di non avere più il cuore e lo stomaco.

Che cosa amava davvero? Che cosa davvero faceva battere il cuore che lui lamentava inesistente? Che cosa fa battere il cuore di tutti e davvero tiene legati alla vita? L’amore e il cibo, si rispose, alzando le spalle: che altro c’è in fondo? Se si ama e si mangia va tutto bene; e va bene anche se si fa una sola di queste due cose. Lei stessa non viveva forse senza amore, non aveva forse vissuto da sempre senza amore, se si toglieva quello dei suoi quattro monelli? Ma quando da basso, dalla cucina, si levava il profumo della parmigiana era una carezza sul viso, e il profumo del fico d’India sbucciato un bacio dolce sulle labbra; e questo spiegava le sue rotondità e la sua latente felicità. C’era sempre qualcosa di bello nella vita.

Ma lui non mangiava e non guardava più Cettina, che lo visitava da sola, tutta agghindata e scollata si sedeva sul letto e lo carezzava, invano, il marchese non la sfiorava neppure; né cercava altre donne, una di quelle che rallegravano le festicciole del marchese con i suoi amici. Quanto al cibo, sembrava odiarlo. O era perché si trattava di brodini da malato? Forse il cibo, sì il cibo, ma quale e in che modo? Il cibo servito con i suoi amici, si rispose la marchesa con un sussulto di gioia, come se una fiaccola si fosse accesa nella sua mente.

Il principe Lancia, il conte d’ Ingalbes, il barone di Ripasaltas, con i quali aveva compiuto il viaggio nell’amata Parigi, vent’anni prima e con i quali organizzava feste e partite a faraone che duravano tutta la notte. A lei, in verità, non piacevano. Le sembravano vuoti e deboli. Inoltre, era gelosa di quel viaggio che, con chissà quali malie, li aveva staccati tutti e quattro dalla loro terra; e i loro discorsi, origliati col cuore in gola durante le notti di gioco, le erano sembrati tetri come le loro facce: tutto quel parlare di donne come se parlassero di bambole, senza amore, e tutta quella nostalgia per una terra lontana, dalla quale ogni cura e vantaggio personale li tenevano lontani, erano tristissimi.

Comunque lui li amava. E agli amici della gioventù avrebbe unito quel che c’è di più viscerale, ciò che lega alla vita con doppia fune, il cibo. Avrebbe dato un pranzo per loro, con tutte le pietanze predilette dal marchese.

Ma gli invitati avrebbero saputo avvincere il marchese con i loro discorsi e tenerlo a tavola e, approfittando della distrazione, indurlo a mangiare qualcosa? Per questo avrebbero dovuto fingersi morti, come lui; affratellati da un medesimo destino, avrebbero dovuto descrivere al marchese l’Aldilà e condividerlo con lui e inventarsi discorsi tali da essere verosimili e affascinanti al tempo stesso. Donna Cubitosa tremò: non erano i tipi da inventare nulla. Rivide il principe Lancia appoggiato al camino, col bel volto secco annoiato sotto la gran parrucca immacolata, intento a regolare l’orologio d’oro del panciotto: come asciugato dal mare che lambiva il suo palazzo costruito sulle antiche mura sopra il porto, accanto a quello del marchese di Carabas. Era sempre sopra tutto e tutti, come la polena di una nave. Tutti lo guardavano e nessuno lo raggiungeva. Poteva egli abbassarsi alla finzione che lei gli avrebbe chiesto?

E il conte d’Ingalbes, morbido e dai lineamenti pieni come frutti ben maturi, troppo gentile, con gli occhi sempre umidi pieni di desideri insoddisfatti; lui al quale tutto, donne, soldi, affari, gli si mostrava da lontano come il mare dalla sua dimora alta nel quartiere di Seralcadio, presso la Cattedrale; lui avrebbe saputo immaginare qualcosa oltre ai suoi personali desideri? Lui al quale la famiglia altro non aveva lasciato che un palazzo in rovina e quattro pezzi di terra e necessitava di tutto, cosicché  ogni suo pensiero ruotava intorno alle necessità quotidiane, come un carcerato intorno alla catena che lo avvince?

Né nutriva meno dubbi sul barone di Ripasaltas. Oh sì, quando la incontrava era un gentiluomo e compiva un perfetto baciamano, rialzandosi con un sorriso che la faceva sentire unica e ammirata; ma troppo perfetto era il suo vestiario e il suo contegno, e tutto quel che lei ricordava di quel signore era la sua ansia di essere statua: per essa agiva e lavorava, per scolpirsi in un marmo da piazza. Essere ricordato e immortalato nel marmo, questo voleva; per quali imprese, ancora esattamente nessuno sapeva. E mentre anch’egli attendeva gli atti eroici, si dilettava con bei ragazzi.

Costoro avrebbero dovuto inventarsi un Aldilà e renderlo credibile; e per fare questo essere concordi e vedere l’altra vita nello stesso modo, dimenticando o mettendo a tacere le proprie individualità, cosa difficilissima per loro, così gelosi del loro essere diversi da tutti; e quindi, se avessero superato questo primo ostacolo, tessere un legame tra il cibo che veniva offerto, e che doveva a tutti i costi esser mangiato dal marchese, e l’Aldilà. E che poteva esserci di più distante del cibo e dell’Aldilà? Persino i Greci, i luminosi Greci, credevano che gli dei fossero immortali perché sceglievano di nutrirsi solo del fumo dei sacrifici di animali davanti ai templi, mentre gli uomini erano mortali perché mangiavano la carne degli animali sacrificati. Il cibo escludeva l’aldilà; o per unirli ci voleva un prodigio d’intelligenza che lei non possedeva e che non avevano neppure i tre amici del marchese…

Ma lei sperava, dal basso dell’ignoranza che le veniva da un’infanzia trascorsa a Giarratana, tra rocce chiare e fichi d’India, che i Greci sbagliassero e che una qualche via tra la terra e il cielo, tra il cibo e la vita spirituale vi fosse e potesse salvare il marito.

E sperava e pregava che i tre nobiluomini avrebbero scorto tutto ciò e l’avrebbero saputo rendere evidente a pranzo, davanti agli arancini fumanti, al pesce spada profumato. A costoro donna Cubitosa avrebbe dovuto affidare la salvezza del marito, né poteva fare altrimenti, e si vedeva in gran pericolo per la pochezza di quei signori rispetto all’impresa richiesta; buoni a governare, a tessere intrighi sopraffini, a spendere e guadagnare denari, ma non a una faccenda delicata come quella. Tuttavia, costretta com’era, votò il suo piano a Santa Rosalia e preparò ogni cosa.

 

Il pranzo dei morti, 4

Il medico, don Fefè, era giunto con una gran maschera nera a becco d’uccello che gli copriva bocca e naso

-Che fate, come vi siete combinato?- donna Cubitosa era fuor di sé dalla rabbia –toglietevi quest’affare, qui non c’è la peste, solo la cattiveria! Il marchese non è malato, piuttosto vuole far ammalare gli altri di casa. Provvedete-

Era venuto don Saro, il sacerdote di casa, coi paramenti viola e un viso triste

-Che fate, non c’è nessuna estrema unzione da amministrare! C’è da risanare un cuore disperato-

Al capezzale del marchese medico e sacerdote non sapevano cosa e che dire. Vivo era vivo, si vedeva subito; ma non era lui. Possessione? Follia? E chi mai avrebbe osato dirlo a donna Cubitosa, così pronta all’ira?

Forse una benedizione solenne e una novena a San Michele Arcangelo; forse una purificazione del sangue con sanguisughe e un impiastro di semi di lino; forse un momentaneo scompiglio della mente, forse una tentazione troppo forte per l’indole delicata; un sottrarsi alla vita, non deliberato, ma subito; un sortilegio o un attacco infernale….la marchesa ascoltava con occhi di fuoco, battendo il ventaglio sul tavolo e poco curandosi della veste da camera non allacciata. Ascoltò tutto, poi balzò in piedi e gridò

-Fuori! Uscite subito!-

Un Gerlando vagamente soddisfatto accompagnò al portone il medico e don Saro, mentre le cameriere porgevano i sali alla marchesa che contro il camino aveva lanciato due vasi di porcellana, comprati a Parigi dal marito, e minacciava di prendere a schiaffoni chiunque volesse calmarla.

E che? Né Chiesa né scienza? Tradimento, non c’erano altre parole: tutti abbandonavano il marchese nell’ora più pericolosa, quella in cui il mondo cessa ogni fascino per noi e tuttavia si è vivi; prima che egli avesse l’eredità che gli spettava da sempre e che vedesse crescere i figli; nessuno comprendeva il caso particolare e proponevano invece le solite cose che si fanno per morti e moribondi. Desolata, si era abbandonata su un canapè presso la finestra e licenziato le cameriere. Solo quando fu sola, si era lasciata andare ai singhiozzi. Piangeva per sè stessa e per i figli e mentre piangeva, piano piano, si accorgeva che piangeva anche per quel marito così distante, così freddo. Si accorgeva che le faceva una pena infinita, ridotto a quattro cenci sotto un baldacchino e si figurava cosa dovesse passare in quel cuore che sapeva così meschino, il lento flusso di aridità e veleni vari; e si figurava pure cosa sarebbe stata la sua propria vita se egli fosse del tutto impazzito, lei derisa da tutti, i figli viziati, guardati con sospetto dagli altri per l’aver avuto un padre pazzo, spiati nelle loro eccentricità per cogliere i segni di una debolezza ereditaria. Ma soprattutto: l’aveva odiato dieci anni interi, e quest’odio le aveva riempito la vita; e quel colosso che aveva acceso l’odio, ridotto a nulla nel letto le faceva troppa pena, e voleva, ancora e sempre, saperlo annoiato nello studio, o intento al tavolo da gioco, ma saperlo vivo. Quindi l’avrebbe curato, e guarito.

E ora, ora che la luna si alzava sottile e salivano con lei dal porto:

i vociari della gente che andava per mare, e preparava le feluche, e le lampare;

i tonfi delle vele ammainate, delle funi arrotolate, accompagnati dai canti lenti dei marinai lontani da casa;

l’odore della minestra dai caseggiati della Misericordia, dove gli ostaggi barbareschi aspettavano il riscatto dei parenti per tornare a casa;

i rumori di stoviglie delle locande presso i moli, dove la gente di mare si sarebbe tra poco scaldata con un bicchiere di vino o una tazza di qualche brodo e già si distingueva l’aroma del pepe e dell’origano;

mentre tutta questa massa di desideri, sogni e nostalgie montava arrotolandosi come un’onda di vita dolorosa e piena di forza e di speranza, donna Cubitosa si sentiva oppressa. Tutti volevano vivere, lottavano e si dibattevano tra mille difficoltà di mare e di terra; tuti avevano un desiderio, uno scopo o una nostalgia; lei sola aveva accanto chi aveva tutto e non voleva niente, chi era felice e voleva sparire. Chi avrebbe mai creduto che in quelle sale albergasse tanta accidia, tanta inutile, colpevole tristezza? Sentiva il palazzo alle sue spalle gelido e malato, e sentiva anche in sè una grave colpa: quale arroganza! Chi era lei, per credere di poter guarire? Eppure aveva agito con grande sicurezza, come se qualcuno le dettasse cosa fare.

Aveva cacciato tutti, il prete, i medici, i parenti. Aveva trasferito metà della servitù e i bambini in campagna, a Giarratana. Con la morte nel cuore aveva stretto i quattro figlioletti, così riottosi a educazione e studio, la cui selvatichezza lei cercava di difendere Le bambinaie e le governanti avevano chiuso i bauli in lacrime perché, senza la madre adorata, i quattro marchesini sarebbero stati dei diavoli e avrebbero litigato ferocemente, si sarebbero arrampicati sui carrubbi, e camminato nelle canale d’irrigazione; e poi, la sera avrebbero frignato cercando la marchesa, che prima della buonanotte li benediceva e raccontava fiabe. In capo a un giorno solo, al mattino presto una lunga fila di carrozze e carri aveva preso il viale d’ingresso e si sparì all’orizzonte.

La marchesa aveva ringraziato Dio che il palazzo fosse così defilato dal centro di Palermo e a ridosso delle mura presso Marina: quel che i suoi antenati avevano voluto per essere più vicini ai loro feudi, adesso tornava utile per evitare chiacchiere e spiegazioni nel momento più delicato. Solo pochi popolani avevano visto le carrozze uscire. I nobili parenti e amici avrebbero saputo, solo a cose fatte, che i marchesini avevano bisogno di un cambiamento d’aria.

Mentre guardava le carrozze avviarsi traballando nella polvere, si era detta che adesso iniziava per lei la battaglia. La più dura, contro un nemico invisibile agli stessi medici. Si era ben armata. Aveva tenuto con sé Gerlando e Totò, addetti alla persona del marchese, Cettina, due cameriere fidatissime per lei, e tutto il personale di cucina, compreso il monsù, che costava quanto l’intera rendita di Geraci ed era il migliore di Palermo.

Perché la marchesa aveva un piano: se da un lato la città doveva sapere che mezza casa era a Giarratana perché i marchesini avevano bisogno d’aria, dall’altro doveva anche sapere che tutto nel palazzo continuava come prima. Era impossibile che non si diffondesse la nuova della malattia del marchese, ma il danno poteva essere limitato, e le voci fatte dimenticare o smentite, simulando la continuazione della vita solita.

-Totò! Aprite tutte le finestre verso la città! Gerlando! Mandate al mercato gli sguatteri!-

Lei sedette presso il marito e provò a fargli bere del latte col miele. Lui era ancora più pallido e senza forze

-Non mangia da due giorni, marchesa- Gerlando si inchinò.

-Non ho più lo stomaco- mormorò il malato con una voce che sembrava venire da sotto terra.

Tre cuscini dietro il capo e la marchese riuscì da infilargli in bocca quattro cucchiate di latte. Col busto però sudava. Andò in camera, se lo fece togliere dalla cameriera.

-Madame…-mormorava la ragazza stupita, forse un po’ indignata.

-Non mi vede nessuno, Nedda. Devo stare libera. Devo salvare il marchese e sudando non posso salvare nessuno-

Senza busto ritrovò la pazienza di far ingollare al malato tutta la tazza di latte, a cucchiaiate. Lui per la prima volta dall’inizio del morbo la guardò, tra stupito e spaventato, mentre un po’ di colore gli tornava sulle guance. E così nei giorni successivi fu lei a nutrirlo di brodo densissimo, brodo della carne migliore con tutte le spezie, che aveva bollito sei ore, tanto che il mestolo quasi vi stava in piedi. Quando non lo imboccava, si metteva alla spinetta che Gerlando aveva trasportato nella camera del marchese e suonava. Cercava di parlargli così, con i brodi e la musica  suonata a ritmo vivace, che lo scuotesse da quell’accidia perniciosissima, cercava e non riusciva. Il marchese restava a letto, muto e sempre più inconsistente sotto le coltri.