Vienna 1683, parte 5 ( e ultima)

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12 Settembre

Ho udito dal mio letto salire il clamore fino ad una intensità spaventosa e poi lentamente decrescere a oriente; e il mio cuore provato dalla malattia accellerava i battiti nello spasimo di sapere cosa accadesse. Hans è giunto di corsa, con voce stridula per la gioia mi ha narrato tutto. I nostri erano nelle colline, nascosti nei boschi, come fiere, come cervi nervosi, leoni coraggiosi. L’imperatore Leopoldo, i principi, i soldati erano acquattati nelle selve a Ovest, dove i Turchi, troppo sicuri di sè, non avevano posto sentinelle. Tanto vicina la salvezza fuori delle mura, tanto profonda la disperazione all’interno -miracoli della Provvidenza, che tutto può sovvertire!

Vedo padre Marco inginocchiato nella radura, stremato dopo la preghiera alla Vergine, e i soldati entusiasmati da lui passargli accanto, correndo verso il nemico. Il terreno risuona della corsa, come un tamburo immenso. Davanti alla loro furia, appena mostrata da lungi e non esercitata, i Turchi fuggono. Non s’è quasi combattuto. Coloro che ci davano la caccia sono diventati prede, sono loro i cervi in fuga verso il Danubio. Con quale facilità tutto è accaduto! Davvero tutto è possibile a Dio, pure che un assedio tanto fiero fallisca in questo modo lieve, quasi senza combattere, senza macchiarsi di sangue le mani. Commosso e riconoscente giaccio nel letto senza più forze.

15 Settembre

Nuova recrudescenza del morbo, tre giorni di febbre alta. Come da molto lontano udivo le feste per la vittoria, il Te Deum tonante dalla cattedrale di Santo Stefano. In una nebbia fosca ho veduto mio fratello al mio capezzale che mi sorrideva tenero; e ricordo una voce nuova di là, e lui che mi tranquillizzava, mi diceva che era Kolschitzky, un amico polacco, al servizio dell’Imperatore, come molti altri suoi connazionali. Voce buona e fiera, che mi sembrò la voce di Vienna intera. Ma scrivere mi affatica e devo smettere, terribilmente grato a Dio, a tutto, a tutti.

16 settembre

Sono preoccupati per me. La mia sonnolenza è strana, perchè non ho più febbre. Ma che importa quel che mi accade, se la città è salva? Nel torpore vedo sempre quel che non ho veduto perchè malato, i Turchi fuggire sulle colline, le porte delle mura aprirsi cigolando, il sole battere sul Danubio; sento stendersi un dolce autunno e le chiese risonanti di ringraziamenti da un capo all’altro d’Europa. Davanti a questo, nulla conta la mia vita, e mi sento piccolissimo.

19 Settembre

Miglioro, per grazia di Dio. Mentre giacevo senza conoscenza padre Marco è venuto e ha mormorato una preghiera per me, presso questo letto. A questo devo la dolcezza che ha forato d’improvviso la nebbia del torpore, un abbraccio immateriale nel quale era dolce piangere e abbandonarsi, una specie di perdono immeritato. Non ancora, ripetevano le cose intorno a me, con paterna tenerezza, e acquistavano ancora, come un tempo, contorni solidi, significati usati; non ancora, e dietro ogni cosa e volto, c’era la volontà benigna di Dio che regge il mondo. Sono felice per i miei genitori, che già mi piangevano morto.

Sera. Ho conosciuto Kolschitzky. E’ allegro e bello, un degno, caro amico del mio amatissimo fratello. Per conoscerlo, io che sino a ieri non avevo quasi forze per aprire gli occhi, ho camminato fino in sala, sostenuto da Hans che ho costretto a restare con noi, sino al termine della visita, anche se era imbarazzato dell’onore e non voleva. L’assedio ha cambiato tutto e noi non dobbiamo rinnegarlo, cadere nell’antico errore, e ristabilire le divisioni antiche che tanto male hanno portato. E nella gioia di tutti al vedermi in forze sentivo l’imbarazzo per il riguardo da me usato allo sguattero; sono troppo diverso da tutti, forse davvero il convento è l’unico luogo per me.

21 Settembre

Kolschitzky dice che i Turchi hanno abbandonato insieme alle tende sacchi di chicchi neri, a centinaia. Poichè nessuno ne conosceva l’uso e tutti li sdegnavano, incuriosito egli li ha presi, quindi ha interrogato un prigioniero turco che ne ha rivelato il nome: Kaweh. E io nuovamente, al solo suono di queste sillabe, mi sono sentito sugli spalti, ancora ho avvertito quel sentimento d’unità e forza che è il patrimonio vero a me lasciato dall’assedio, il vero miracolo di padre Marco, questo sguardo non ostile sull’apparente nemico. E mentre Kolschitzky ancora narrava d’essersi fatto spiegare dal prigioniero la preparazione del kaweh, ho sentito montare in me la gratitudine verso Dio che esaudisce a tempo debito ogni desiderio, anche questo minuscolo, che ebbi d’assaggiare la bevanda, e ho chiesto che domani la si preparasse in casa nostra. Devo aver chiesto con tanta, troppa, intensità, giacchè tutti intorno hanno taciuto e mi hanno fissato, mentre udivo l’eco stridulo della mia voce echeggiare nel camino. Il capriccio d’un convalescente, avranno pensato, e non sanno, non sanno, nè posso io dire. Kolschitzky ha acconsentito, con troppa dolcezza. Domani sarà qui.

22 Settembre

Si mette l’acqua sul fuoco, al bollore vi si pone la polvere nera ottenuta triturando finemente i chicchi, quindi tre volte si alza il bricco dalla fiamma appena riprende il bollore, per il tempo necessario a placarlo. Poi si versa nel bicchiere e s’attende che la polvere nera si depositi sul fondo. Ad ogni sospensione del bollore, un più forte aroma s’alza e narra di tutto quel che ho veduto e sentito là sulle mura, quando ancora ero bambino e non sfiorato dall’angelo della morte, delle notti vaste e secche d’Arabia, che recano alle bacche la rugiada necessaria a inturgidarle, delle sabbie calde che le asciugano e corrugano, di lunghi viaggi su dondolanti cammelli, che mai vedrò, ma che ho vissuto già, grazie all’odore.

Dio con quest’aroma mi ha ricordato che non è necessario conoscere con occhi mortali e mortale corpo, poichè l’amore per Lui garantisce ben altri mezzi, e più duraturi e profondi, di conoscenza, e nulla è perduto con Lui e in Lui, ma tutto ritrovato in più vera essenza. Forse che padre Marco non ha letto nei nostri cuori, senza che noi parlassimo? E che non ho inteso l’aroma dagli spalti, non l’ho forse letto come si legge la pagina d’un libro, da esso derivando, in un attimo, una conoscenza che nessun viaggio avrebbe donato in molti mesi?

 Immateriale, come quest’aroma, ciò che ci unisce fra noi e con Dio, un legame invisibile e fortissimo, che affonda radice nel materiale e da qui si slancia verso il Divino Cielo. Non più nostalgia di quel che non vedrò con questo corpo, ma rinnovato desiderio di chiudermi là dove questa conoscenza santa fiorisce senza distrazioni. Felice ho rivisto in cuore il portone del convento che m’attende -e incurante degli sguardi e consolazioni altrui, mentre il kaweh veniva versato,  piangevo di commozione, gratitudine e tenerezza.

Allora mi fu posta in mano una tazza colma del liquido nero, per distrarmi e consolarmi, quando già ero risollevato e consolato. Avevo fra le mani quel che tanto e invano avevo desiderato durante l’assedio, piccola immagine della grande Restituzione che in Lui ci attende; nero come la notte, tutto concentrato in sè, privo della brillantezza  che il vino possiede.

L’ho bevuto: è forza che trasmette forza, dritta al cuore come una freccia; per quanto zucchero vi si sciolga, resta amaro e duro, e così corregge, con durezza, le nebbiose illusioni della convalescenza, le pericolose debolezze alle quali le membra vorrebbero cedere. Nessuna conoscenza nuova rispetto all’aroma, solo un effetto fisico, l’azione di un tonico, che come una scudisciata mi ha sferzato e restituito il vigore sottratto dal morbo, la limpidezza di mente che il delirio aveva intorbidato. Ho udito Kolschitzky dire che vuole filtrarlo, trovando fastidiosa al palato la polvere che si deposita sul fondo e che un poco resta in bocca. Ne farà una bevanda più rapida da bere, più adatta a noi viennesi, sempre indaffarati. Io ho rammentato, con un sussulto di nostalgia, i Turchi a lungo seduti intorno al fuoco, intenti a degustare il liquido nero senza fretta, assorti in lunghe, inutili conversazioni, più di noi vicini in costumi e mente alla terra che generò le bacche nerastre, alla terra che visiterò in Dio, quando sarò dall’altro lato.

Allora, a conferma della mia decisione di separarmi dal mondo per meglio conoscerlo, e della quale ho tanto dubitato durante l’assedio, ho visto, con grande nitidezza davanti a me, come questo kaweh avrebbe dilagato in Europa, corretto secondo il nostro gusto, interpretato, simile ad alcune parole che mutano lievemente da una lingua all’altra. Come tutto ci è reso centuplicato, anche minuscole conoscenze, miserabili intuizioni! Nulla è mai perduto, è da qualche parte in nostra attesa, preparato per noi.

Ero tornato a casa, tornato a me stesso, la prova era finita.

Vienna 1683, parte 4

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20 Agosto

L’imperatore Leopoldo raccoglie un vasto esercito, e presto sarà qui; l’hanno annunciato fuochi e segnali dalle alture. Padre Marco sarà con loro, in casa ne siamo certi; e se davanti ai soldati, come io credo, avrà il medesimo fuoco nelle parole che ha avuto con noi a Vienna, la vittoria è sicura, quale che sia il numero degli uomini giunti in soccorso.

Appena è così risorta la speranza di vivere, sono caduto nell’incertezza: prenderò i voti o piuttosto non diventerò ufficiale dell’imperatore? Perché di me stesso non so più nulla, e ancor meno della mia vita; e considero con sempre maggiore ammirazione e affetto coloro che stanno sulle mura, le loro uniformi che rendono nobile ogni volto; anch’io forse dovrei e vorrei difendere la patria, seguire i generali in terre straniere e lontane e conoscere davvero il mondo del quale nulla so e nulla mai saprò, se dovessi entrare in convento. Dunque appena sospende il terrore è pronta a piombarmi addosso l’incertezza, sì che non posso stare tranquillo mai -che Dio abbia pietà di me e della mia misera vita.

23 Agosto

I nostri soldati parlano dagli spalti con i nemici, oggi li ho uditi. Domandavano il nome della bevanda e lo ottenevano: kawah, kaweh. Ridevano, ciascuno ripeteva, storpiandole, le parole dell’altro e quelle voci che oltrepassavano le mura, che forse non avrebbero dovuto risuonare, mi hanno stranamente commosso. Esse dimostravano vero quanto avevo intuito, che noi e loro siamo tutti ugualmente infelici, disperati, tutti pietosamente in lotta sotto lo sguardo tranquillo della morte. E dunque unità, sotto ogni assedio e opposizione, sotto ogni guerra; ciò che ci divide è materiale e pesante, sono i corpi, le fisionomie, le ricchezze, e quanto di esso sembra immateriale, il desiderio di dominio e conoscenza, o l’ambizione, ha invece uno scopo materiale, il denaro, il bottino. Ciò che ci unisce è invece immateriale e subito disperso e soffocato nel mondo terreno, sono le voci, i palpiti dei cuori identici in ogni luogo e sotto ogni sole, pallido o forte che sia, è l’aroma della bevanda che soccorre, anche quando i nemici vorrebbero farci tutti morti. Immateriale, ma per questo più solido e duraturo di ogni ostilità, solo che si voglia intenderlo.

24 Agosto

Ecco, è giunto il nemico più temuto, il morbo. Le persone, sfinite di fame e paura, cadono preda di febbri violente e muoiono senza che i pochi medici presenti in città possano soccorrerli in alcun modo. Il cielo è velato, torbido il Danubio. Dell’imperatore più nessuna nuova e i Turchi attendono in silenzio, come presso un’agonia della quale si desideri la fine.

28 Agosto

Mio padre mi ha proibito d’uscire, perchè la nostra casa per ora è risparmiata da esso ed ogni contatto con l’esterno potrebbe portarvelo. Prego la Madonna per ore. Non ho più paura, anche se la morte non è mai stata tanto vicina. Dalla finestra guardo la città, i tetti appuntiti sotto il cielo cupo, che non riesce a sciogliersi in pioggia, e sento tutto in bilico, sotto l’azione di una pressione estrema, la cui natura è indefinibile. Avverto l’anello delle mura prossimo ad aprirsi, ma non riesco a vedere se sarà per lasciare entrare i nemici, o per l’espansione della città vittoriosa che dilagherà in residenze, giardini, feste. Affido in cuor mio Vienna alla Santissima Madre di Dio e offro per la sua salvezza la mia vita, inutile, della quale non so che cosa fare.

7 Settembre

Sono stato ascoltato, in parte. Poche ore dopo le ultime parole scritte in questo diario sono caduto preda della febbre che miete tante vittime in città. Per nove giorni ho vissuto come a gran velocità, sì che l’anima mia non riusciva a fermare nulla in sè; solo la febbre in me galoppava e mi donava, nel suo folle transito, una lucidità straordinaria. Così ho conosciuto nitidamente la fedeltà di Hans, il doloroso amore di mia madre; i loro volti comparivano al termine d’ogni vampata, presso il mio capezzale, immutabili e costanti, commoventi, con tutto il loro destino scritto, la condanna all’amor materno, i limiti e le libertà della servitù. E pure l’aver inteso la città in bilico, l’ultima volta che scrissi, era dono del morbo che stava per prendermi, quasi che la vicinanza dell’angelo mortifero doni vista più acuta. Ma il sacrificio mio non è stato accettato e la Provvidenza mi ha lasciato qui, mentre sarebbe stato tanto facile trapassare nella gran velocità che dissi sopra, un salto breve, un piccolo volo.

Adesso invece, nella città oppressa, come sarà? Perchè nulla è mutato, i Turchi alle porte, la morte signora, la fame ad ogni casa, l’imperatore che s’annuncia sempre e mai giunge. Nella convalescenza tutto è lento, e quasi rimpiango la concentrata intensità che il morbo consentiva. Stanco e debole, insisto che per me non s’abbiano riguardi; non voglio brodi nè decotti, solo che mi si lasci pregare, che mi si lasci accostare in cuore alla santa umiltà che è del caro padre Marco, di cui tanto sento l’assenza.

8 Settembre

Questa convalescenza è peggio della malattia. Sono spossato e il tempo afoso aggrava le mie condizioni. Il morbo dilaga in città; grazie a Dio in casa nessun altro, eccetto me, l’ha contratto. Accetto, accetto tutto.

9 Settembre

Vi è un arrivo nell’aria, ignoro se per me o se per la città, qualcosa che che non oso sperare; un annuncio, una letizia sui tetti, un qualche scioglimento. Sono molto debole, non posso scrivere oltre. Mia madre, che Dio sempre la benedica, non mi lascia mai.

10 Settembre

Oggi sto appena meglio. Hans mi ha portato notizie dagli spalti, dove tutto è immobile. Le sentinelle fissano il campo nemico, i Turchi fissano noi, in attesa di saccheggio e bottino, in attesa che il morbo si propaghi ancora ed essi possano entrare in una città ricca e morta. Il cielo è caldo e giallo, gli uccelli neri. Mi recano per desinare brodi strani, mai visti, vischiosi, fatti con chissà cosa, prodotti da amore e disperazione. Non voglio riguardi, ma mia madre mi sospinge con gli occhi e li trangugio a forza, quando so che vorrei soltanto essere dimenticato.

11 Settembre

Languore, languore infinito. Sono ancora a letto, tengo questo quaderno sotto al cuscino, ma mia madre non vuole che scriva, perchè mi stanco. Mio padre stamane è passato a salutarmi prima del desinare e aveva modi e volto alacri, pieni di una gioia segreta e trattenuta a stento. Non ha risposto alle mie domande, ha solo sorriso in un modo misterioso che mi ha quasi restitutito le forze, e per un istante mi ha fatto tornare allegro ed energico come quando ero bambino ed egli mi teneva sulle ginocchia.

Vienna 1683, parte 3

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12 Agosto

E’ un assedio stanco, questo, ben diverso da quelli fierissimi che il precettore l’anno passato mi fece studiare, forse per fortificarmi. I Turchi intorno alle mura, passeggiano, festeggiano, si esercitano con grida troppo selvagge per non essere simulate. L’aroma straniero che ho detto si effonde di continuo e vorrei tanto assaggiare la bevanda che lo genera.

13 Agosto

Hanno riferito a mio padre che vado sugli spalti.  Quando sono tornato era in cima allo scalone e io ho subito capito. Si è slanciato verso di me come se volesse, per la prima volta in vita sua, battermi, ma un nuovo pensiero l’ha fermato a un passo da me, che non mi muovevo e attendevo le meritate percosse. Mi ha guardato come se vedesse un estraneo, un adulto ignoto, e con dolcezza mi ha rimproverato di non avergli detto ciò che facevo. Io gli ho chiesto perdono, ed egli, con voce tremante, mi ha parlato della cura che la cara madre prova per mio fratello maggiore, pronto a combattere al seguito dell’imperatore, del rimorso per avermi tenuto qui, invece di allontanarmi -ma troppo grande era il desiderio di non essere inferiori a coloro che restavano in città rischiando tutto, senza poter mettere al riparo nulla. E io, senza che mai avessi pensato simili cose, e come se altra luminosa creatura me le suggerisse, mi slanciai tra le sue braccia e dissi che Dio lo avrebbe ricompensato di tanta nobiltà, che il caro padre Marco e le sue sante preghiere avrebbero stornato da noi il pericolo. Sì, sicuro mi sono sentito, come se ancora il frate mi facesse una carezza sul capo, e ancora non temo castigo per la mia presunzione, ancora mi sento innocente delle cose dette.

17 Agosto

Giorni di esplosioni, spaventose, sul lato settentrionale. Il cibo inizia a mancare davvero, le scorte furono forse insufficienti per la fretta, o predisposte con eccessiva fiducia. Stamane, quando alla scrivania mi sono accinto ai compiti di latino, non ho riconosciuto la mia mano che si tendeva verso il calamaio, tanto bianca e sottile, quasi trasparente, è divenuta. Meglio morire in battaglia, che questa consunzione lenta, che questo indebolirsi di ogni cosa, del sole che sorge pallido, delle vite nostre rinchiuse, dei nostri sentimenti.

18 Agosto

Mi sentivo debole, ma pure sono andato sugli spalti, senza Hans. I soldati sembrano contenti di vedermi, pare che io li rassereni. Non vi sono stati danni nel tratto di mura dove io solitamente mi reco, quello orientale, donde meglio si vede l’accampamento nemico, che stamane m’è parso più ampio ancora, e come ribollente, montante a lambire i camminamenti delle nostra mura. Per la debolezza e la calura che si stendeva come un manto su Vienna, temetti persino di svenire nuovamente, ma è giunto in soccorso l’aroma sconosciuto che dissi, recato dalla brezza -quanto vorrei assaggiare la bevanda dalla quale s’esala! E’ tanto forte che infonde forza, tanto amaro e asciutto che genera sapienza; e io vidi con nuova lucidità, vinsi la debolezza e cercai di leggere profumo e accampamento. E come nelle tende variopinte c’era la molteplicità di terre che il Sultano governa, così nell’aroma che mi soccorreva io sentii lande calde e desertiche, le medesime che il precettore mi spiegò mostrandomi le incisioni di un libro, e carovane lente che le attraversano, sabbia, cespugli spinosi e pecore; e v’erano esistenze pigre per il calore, sguardi forti in mezzo a veli sotto al sole, e le tinte brune dei nemici nostri; ogni immagine tanto opposta a noi da scuotermi.

Il vento settentrionale, carico di umidità e pioggia, si levò e disperse aroma e sogni. Stretto nella mantellina estiva sono tornato a casa triste per il mondo vasto che mai vedrò, del quale l’aroma e l’accampamento non sono che un annuncio, per la gran quantità di uomini con cui non parlerò, di cibi e bevande che non assaggerò, di luoghi e nazioni la cui bellezza mai risplenderà per me, perchè qui sono ormai rinchiuso e, qualora l’assedio finisse e noi restassimo vivi, vivrei in convento. E se già qui rinchiuso soffro per la mancata conoscenza, come mai potrò sostenere i voti che agogno, come potrò rinunciare a conoscere e vedere? E’ una tentazione, recata dall’aroma straniero, e soffro come se fossi colpito da frecce.

Vienna 1683, parte 2

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29 Luglio
Con Hans, tale è il nome dello sguattero mio amico, oggi siamo usciti di casa. Io non volevo, temevo che fosse male o che male sarebbe stato giudicato dal precettore e dai miei genitori, ma nel suo sguardo vi fu una tale sorpresa per la mia esitazione, che temetti, più di un castigo o d'un peccato, d'apparirgli un bambino che non può decidere alcunchè, mentre sono quasi un uomo, e sarò presto, se Dio vuole, un sacerdote, e nulla devo paventare se non la mia coscienza e il giudizio divino. In me non trovavo ragioni che mi vietassero quell'atto, inaudito, ma non cattivo. E che forse padre Marco d'Aviano non percorreva a grandi passi le strade di Vienna, pregando e confortando a gran voce, intrattenendosi con tutti, ricchi e poveri? Perchè non avrei potuto e dovuto io seguire il suo esempio?
Dunque andai con Hans.
Egli si recò sul lato orientale degli spalti, che pare conosca benissimo, a vedere, disse, se v'era bisogno di aiuto. Desidera combattere, odia i Turchi, conosce tutti gli artificieri delle mura e tutti i tipi di armi. E mentre egli discuteva con gli armigeri che bonariamente lo schernivano, io, badando a non farmi scorgere dagli ufficiali, fra i quali avrebbe potuto esservi un amico o un cugino, mi guardavo intorno, per cogliere ciò che avrebbe potuto non presentarsi più alla mia vista.
Celato da sacchi di sabbia ebbi l'agio di vedere tutto per bene, il piano ondulato verso l'Ungheria, i boschi ombrosi, le tende turche a perdita d'occhio. Quanti sono i nemici, e quanto pochi siamo noi, soprattutto diversi! Fui fulminato, terrorizzato dalla differenza. Noi e la città, solidi, compatti, stabili come le nostre spesse mura; e loro mobili, scorrevoli, come le variopinte stoffe che fanno le loro tende, dalle quali senza posa uscivano leggeri e sorridenti, quasi fossero a un gioco, non alla guerra. Hanno volti strani e scuri, straniere grida, canti stridenti, non riuscivo a fermarmi su nulla e nessuno -tutto si fondeva in un immenso animale che s'avvolgeva intorno a Vienna per soffocarla.
Credo d'essere svenuto; e dico credo, perchè ciò che accadde è che il mio corpo si sottrasse alla vista troppo spaventosa, e s'accasciò tra i sacchi, mentre l'anima restava vigile. Mi soccorsero con tenerezza e scherno leggero, ma mi rianimò non la birra, che mi fece tossire, perchè non vi sono abituato, bensì un odore nuovo, strano e penetrante, credo il medesimo che avvertii nel cortile nostro due giorni or sono. Appena riscosso ho avuto vergogna e sono fuggito, scansando le mani che si tendevano a sostenermi, seguito da Hans impaurito e contrito. Mi sono ripromesso di mostrare domani a tutti il mio coraggio.
 
5 Agosto
Sugli spalti, ogni giorno, con Hans, e pieno di rimorso: se mia madre sapesse quanto ne sarebbe addolorata! Eppure sento che è come se fossi chiamato là, come se là vi fosse qualcosa che devo conoscere o fare. Non sono più svenuto, nè il campo nemico mi è apparso ancora come un animale; fiero di me stesso, sento i soldati chiamarmi per nome. Soffro la differenza rispetto a noi che i Turchi manifestano, ma ho imparato a vedere gli elementi diversi che compongono il loro accampamento e a contemplarli con calma. Distinguo tutto, le tende dei misteriosi giannizzeri, che vengono da una vita terribile, l'accampamento riservato del Gran Visir Kara Mustafà, le tende dell'harem sorvegliate dagli eunuchi. Spio come avvolgono i turbanti, con gesti lenti e sicuri, quasi fosse un compito sacro, guardo come sellano cavalli asciutti come i loro cavalieri; ammiro, verso il campo di Kara Mustafà, il baluginio di gemme e soprattutto respiro l'odore che sovrasta ogni altro, misterioso e affascinante, acuto tanto da giungere al cervello e da farlo vigile come nell'imminenza d'un pericolo. E' un mondo tutto sbagliato secondo la nostra fede, ma quando considero i singoli volti adesso vedo uomini come i nostri, riconosco nei visi loro, nelle voci diversamente intonate, le medesime nostre espressioni, i nostri medesimi sentimenti, e avvezzato alle loro fisionomie, alle loro tinte brune, più non provo timore, ma la medesima compassione che mi ispirano i miei connazionali, tutti morituri, fragili e miserabili.
E intendo ciò che significava lo sguardo di padre Marco, che l'opposizione fra noi e loro è falsa, voluta da terrene, non divine, ragioni, che la sostanziale unità fra noi è la sola, vera realtà. Le differenze riguardano solo i desideri di potere, le fisionomie, o le costumanze, cose esterne, transitorie, capaci di suscitare in me solo curiosità. E confesso a queste pagine e ad esse soltanto, che vorrei uscire dalle mura, parlare con i Turchi, sedere con loro e capire il loro linguaggio; che vorrei conoscere tutto, ogni luogo e persona, perché gioia più grande non vi è al mondo.
 
7 Agosto
Giorni di mine, come a ricordarci che essi sono qui e non scherzano, che troppa fratellanza non è adesso possibile. Sono come bambini: vogliono le nostre cose, i nostri giocattoli, stoffe, gioielli, arredi, che strapperanno senza capire.
 
11 Agosto
Di nuovo dalle mura l'odore nuovo e caldo. I soldati mi spiegarono che si sprigiona da certi pentolini che i turchi mettono sul fuoco e tolgono per tre volte, versandone quindi un liquido che non bevono subito. Sotto l'effetto potentissimo dell'aroma vedo tutto meglio, l'opposizione e l'unità che ci dividono e legano. Confronto i colori di ciascun popolo: noi tingiamo di giallo le pareti delle case, nel tentativo di simulare quel sole che tanto poco vediamo; essi hanno nelle tende e negli abiti tutti i colori esistenti, in strisce e pannelli, tanti quante sono le terre che governano, senza timore della violenza che i contrasti fra le tinte offrono alla vista. E mi chiedo se questo non significhi altro, che noi dominiamo cercando di rendere tutto uniforme, come in obbedienza a un principio solido e imperioso, ed essi invece accogliendo le differenze in nome di quel che sia simile alla mobilità e agilità loro, forse il commercio o il denaro. Ma tale fantasmagoria di differenze è apparenza, subordinata a Colui che dispose  l'intera varietà del mondo; e da qualche parte, nascosta ma sostanziale, c'è l'unità fra noi e loro, che rende la guerra, ogni guerra, e quest'assedio, un errore atroce. Un medesimo cielo ci copre, un medesimo Padre ci ha voluto.
 
12 Agosto
E' un assedio stanco, questo, ben diverso da quelli fierissimi che il precettore l'anno passato mi fece studiare, forse per fortificarmi. I Turchi intorno alle mura, passeggiano, festeggiano, si esercitano con grida troppo selvagge per non essere simulate. L'aroma straniero che ho detto si effonde di continuo e vorrei tanto assaggiare la bevanda che lo genera.
 

Vienna 1683

Immagine presa dal web

Leggenda vuole che il caffè in Europa centrale sia arrivato portato dai Turchi i quali, ritirandosi dopo l’assedio di Vienna, lasciarono dei sacchi di chicchi neri e stranamente profumati…
Qui sotto inizia un tentativo di ricostruzione di quest’ evento che nella mia vita ha portato molti bellissimi risvegli.

Vienna, 5 Luglio, anno Domini 1683

Dò inizio a questo diario, io, Adalbert von****, al centro dell’estate, nell’anno più triste per Vienna, questo 1683 funestato dall’attesa dei nemici. Tutte le città cristiane tremano con noi, a noi rivolgono i loro voti, perché Vienna adesso è specchio della loro sorte. I Turchi arrivano, e nessuno sa perché. Già le avanguardie loro percorrono le colline, attraversano i boschi, con grida che sembrano ululati. L’imperatore Leopoldo è partito, in cerca di aiuti da altri re, mio fratello maggiore è con il suo seguito, e noi tutti ci sentiamo abbandonati.

Che queste pagine, inutili sia che noi sopravviviamo, sia che periamo, siano per me un conforto alla solitudine, perchè ormai presso nessuno vi è più aiuto. Il mio precettore continua il latino con un volto affilato, con una voce brusca che non gli conoscevo, e forse in tal modo cerca di prepararmi alle offese che giungeranno. Mio padre è sempre fuori, per organizzare la difesa, se mai difesa vi sarà, della città; mia madre piange nella sua stanza.

Nessuno parla con chiarezza davanti a me che sono giudicato un bambino, sebbene abbia da tempo deciso della mia vita. Non mi resta dunque che origliare i racconti dei servitori sulle crudeltà che i Turchi perpetrarono nella campagne, durante la marcia d’avvicinamento, e attendo l’arrivo dei nemici con un batticuore che m’impedisce il sonno. Tutto è interrotto, la vita della nostra casa e della città intera, e l’inizio del mio noviziato in convento è stato rimandato a dopo l’assedio, se vi saranno per noi altri giorni. Che vita è mai questa?

8 Luglio, anno Domini 1683

Che Dio abbia pietà di noi. Giungono. Le colline intorno alla città sono percosse dagli zoccoli dei cavalli nemici ed echeggiano cupe, ma essi non si mostrano ancora, restano celati nei boschi. Come saranno quando arriveranno?

12 Luglio, anno Domini 1683

Hanno piantato le loro tende, le hanno distese come un mare intorno alle mura di Vienna. Sono stoffe colorate a perdita d’occhio, grida e nitriti. Impossibile distinguere una fisionomia, un volto singolo, soffermare lo sguardo su qualcuno o qualcosa, tutto fra essi è mobile e inquieto come le onde. Una sola certezza derivo dal clamore loro, che essi sono lieti, perché certi della vittoria. E il loro accampamento, ampio oltre ogni umana immaginazione, vivo più che qualunque capitale cristiana, sta a dimostrare che così sarà.

14 Luglio, anno Domini 1683

Da anni dico quotidianamente il Santo Rosario, ma mai con così grande fervore come in questi giorni. Che la Madre Santissima di Dio ci protegga e stenda su noi il suo manto come fece un tempo a Lepanto. Per la prima volta in vita mia, oggi ho udito litigare i miei genitori; mia madre piangeva, diceva che avremmo dovuto andare via, come i nostri cugini, e mio padre, con una voce nuova, le rispondeva che resisteremo, che la Madonna ci salverà e permetterà all’imperatore di trovare aiuti tali che nessun nemico entrerà in Vienna. Udirli per me è stato come se le mura della città si fessurassero e s’aprissero. Già tutto si sovverte.

15 Luglio, anno Domini 1683

Non attaccano. Sotto le mura gridano, ridono, schiamazzano, ma non attaccano. I volti loro sono strani e terribili e davanti ad essi ricordo padre Marco, il frate italiano, che durante le sue prediche l’anno scorso predisse un grande castigo se noi viennesi non ci fossimo santificati.

Egli venne pure in casa nostra, parlò con i miei genitori, a me fece una carezza sul capo, lieto della mia vocazione, e mi invitò a pregare, a rammentare sempre le sofferenze del Signore Nostro Gesù Cristo in croce, nelle quali tutto quel che noi patiamo diviene facile e dolce da tollerare. E, certamente avendo in cuore la scienza di quel che sarebbe stato, mi raccomandò di non odiare, e mentre così diceva, il suo sguardo era felice e mite, sembrava vedere qualcosa che rendeva minuscolo quest’assedio ed ogni opposizione di cuori, qualcosa che andava alla radice gaia della vita. E adesso, per un istante, uno solo, trascinato dal ricordo di quegli occhi ho sentito, o immaginato, che noi e i Turchi, divisi dalle mura, da volontà e costumanze opposte, non siamo così distanti, che esiste, ben celato, qualcosa che ci unisce e renderebbe possibile, se solo si osasse, uno scambio, un sorriso, uno sfiorarsi di mani. Un attimo appena, poi il mio cuore è stato di nuovo serrato dall’artiglio freddo del terrore.

16 Luglio anno Domini 1683

I Turchi hanno fatto esplodere mine presso le torri settentrionali, senza provocare danni -una dimostrazione di abilità e potenza, non volontà d’uccidere e forzare, almeno per ora.

Si dice che in Candia, anni fa, abbiano fatto proprio così, logorando i difensori con gallerie di mina fin nel cuore della fortezza e che a nulla sia valso il coraggio eroico di questi. Io so soltanto che il boato fu terribile, anche se dal lato opposto della città rispetto a quello della nostra casa, e il fumo che s’è alzato sembrava l’annuncio di quello, ben più denso e atroce, che ci attende quando saranno entrati.

19 Luglio anno Domini 1683

Giorni neri di esplosioni. Il nostro udito era abituato a voci, musiche, canti, o comunque suoni d’uomini, animali od elementi, non a queste lacerazioni fragorose che sembrano dividerci da tutto e tutti. Perfino il Danubio è oscuro e con la tinta delle acque risponde al tormento dei nostri cuori.

20 Luglio anno Domini 1683

Vogliono prenderci per fame. Vogliono che lasciamo intatte le nostre case, i nostri beni, per potersene impossessare quando entreranno, per questo non cannoneggiano, non assaltano, e si limitano a esplosioni fuori dalle mura. E ci riusciranno. Oggi ho udito la governante dare ordini in cucina: minestra di farina e patate, null’altro per il desinare di mezzogiorno, sino alla fine dell’assedio.

21 Luglio anno Domini 1683

Mio padre raccontava di aver visto, tanti anni fa, quando l’imperatore era giovane, la caccia al cervo nelle acque del Danubio, tanto complicata che non fu più ripetuta da allora. Si erano allestiti padiglioni splendidi sulla riva sinistra, i cervi erano stati chiusi in un ampio recinto, fra musiche e conviti, poi, al segnale convenuto, con i cani e il rullo dei tamburi gli animali erano stati sospinti in acqua, e qui massacrati dalla sponda, mentre erano col muso a pelo d’acqua, l’alto palco di corna che ne segnalava la presenza ai cacciatori.

I bramiti, l’acqua arrossata, i corpi galleggianti trascinati a riva dai servitori: prefigurazione della sorte nostra. Noi ora siamo i cervi per altri, rinchiusi solo per essere costretti a gettarci nel luogo dove saremo più esposti ai colpi mortali; e anche noi cercheremo scampo là dove il pericolo è maggiore e il Danubio immutabile e indifferente che finora ha nutrito le nostre vite attende ora la nostra morte.

25  Luglio anno Domini 1683

C’è un’abitudine all’assedio. Non posso dire d’aver meno paura, ma sento gran desiderio di vivere bene questi che sono forse gli ultimi giorni a noi concessi. Penso quasi che, in virtù dei miei quindici anni insufficienti per qualunque impresa, mi s’addica qualcosa di ancora diverso dal compianto di mia madre, dalla resistenza di mio padre. Non so cosa, forse uno sguardo, libero da doveri che non siano quelli di un buon cristiano, capace di mostrare ai cari genitori qualcosa che, non so come, ma certo per grazia divina, li sostenga nei loro compiti, qualcosa d’affine allo sguardo di padre Marco d’Aviano, libero da odio e paura. E prego la Santissima Vergine, oltre che per la salvezza nostra, anche per questo specialissimo compito filiale che sento d’assumermi.

27 Luglio

Insieme al desinare che si fa più misero, tutto muta. C’è una maggiore libertà, nel bene e nel male. Il precettore non mi impone più lezioni: è magro, stanco, e sembra non credere più in quel che fa; oggi era febbricitante e non mi ha fatto lezione. E in generale nessuno più fa quel che faceva prima, e tenta di colmare questi giorni in modo inusitato.

Io oggi ho giocato nell’androne con lo sguattero che lava i piatti, il quale bighellona in cortile, non essendovi tante persone in casa e meno cibo. Non v’era nessuno cui domandare il permesso di farlo, il precettore malato, mia madre appena assopita, dopo una notte insonne, la governante fuori casa -e l’ho fatto, senza provare rimorso, pur sapendo che sarebbe una cosa disapprovata in tempi normali. Correvamo, facevamo andare le mie trottole; non avrei mai creduto che fosse tanto gentile persona. Mentre giocavamo, dal portone aperto vedevo il lastricato illuminato dal sole e sentivo un odore strano e nuovo, adatto a questi strani, nuovi, e forse ultimi giorni; un odore amaro e caldo simile a un profumo, che mi ha affascinato. Proveniva dal campo nemico, ma nemico non era.

Pasqua e caffè

Full frame of light roasted coffee beans

Ieri mattina cercavo qualcosa, un’immagine, un’esperienza, che potesse dare una vaga idea di resurrezione della carne. Perchè questa ovviamente non può essere paragonata nulla, né immaginata. E tuttavia si può cercare nel mondo umano una qualche affinità con essa -sono sempre ottimista. Mi è venuto in mente innanzi tutto l’innamoramento. Poi l’odore del mare molto presto, quando albeggia. E poi, non vorrei sembrare troppo prosastica, l’odore del caffè al mattino, in cucina. E’ uno squillo di tromba, una voce allegra che trae dal sonno e dal buio e chiama a un giorno pieno di cose belle da vivere. Insomma, mi commuove (e non c’è Nespresso che tenga, mi dispiace per George Clooney, ma l’odore del caffè è quello della vecchia, cara Moka).

Quindi nei prossimi post un raccontino a puntate dedicato alla scoperta di ciò che mi fa alzare al mattino.