Achille a Sciro, 3 (e fine)

Quando le figlie di Licomede dormono con i loro respiri leggeri e concordi, io nel letto mi ripeto le storie di Chirone. Mi consolo così del tallone, della sorte che mi attende e che mia madre vuole stornare da me. Ho narrato queste storie ad una di queste fanciulle della reggia: mi ha sorriso, è corsa via a raccontarla alle sorelle; di bocca in bocca, fra risolini timidi e occhiate sbieche, le storie si sono moltiplicate e mutate, spezzate in mille versioni.

La verità di Chirone è così diventata mito, che ribadisce il limite di ciascuno, sostanza e solitudine nostra, il cui finale ciascuno può mutare -dunque tutti restiamo separati, come le colonne di questi portici. Se partirò, se morirò, che cosa diranno di me? Di Achille che resterà a un passo da ogni compimento, dalla città insanguinata, dall’amore, dall’immortalità? La mia vita aprirà la strada a parole di poeti, e Achille finirà di perdersi in variazioni infinite, in un nuovo mito; mi assegneranno troppo umane sorti, il rimpianto in Ade di ciò che mai ho amato, o il premio che ciascun servo per sè sognerebbe, l’isola candida con Elena -non la gloria che indusse Orfeo a congedare Euridice.

Qui mi tiene non il timore della morte presso la città che per me resterà inviolata, ma delle parole infinite che tenteranno di narrarmi e contro le quali neppure il potere di Chirone avrebbe la forza di preservarmi. Diminuizione vera questa, dalla quale ogni altra dipende, questo girare dei discorsi che pronunceranno ogni cosa e il suo contrario, in mezzo ai quali le verità del centauro non possono essere credute, nè ripetute. E tutto è così, in quest’età, un girare come di ruota intorno all’asse che resta oscuro, un turbinio di parole intorno a miti sempre veri e sempre falsi, perchè sono noi stessi. Presto eruditi compileranno liste ed epitomi, elencheranno le varianti: allora davvero sarà la fine, mani colme di papiri che si tendono verso il cielo chiuso, in offerta.

Sono stanco. Voglio parole capaci di inchiodare per bellezza e profondità, ad ogni mutamento chiuse, perchè dall’alto esse stesse giungono; che costringano a domande infinite sul loro significato, senza mai dare alcuna certezza di aver compreso il significato intero; che siano sempre vere, che nessuna loro interpretazione sia falsa e tuttavia resti insufficiente; e fermino così l’inquietudine, il desiderio di fare e mutare che uccise il Minotauro; che affratellino e uguaglino nella piccolezza nostra davanti ad esse. Ma queste parole nuove non risuonano, e non risuoneranno, se quest’età non finisce, se ancora dura Achille inviolato e nel mondo mantiene la mescolanza.

Mi figuro a sera la morte, e il volto del dio che, se lascerò la reggia di Licomede, mi porterà morte colpendomi al tallone – forse sarà Apollo signore del ritmo, poichè il ritmo esige che quest’era finisca. Mi figuro Orfeo che sceglie di lasciare Euridice ad Ade, ricordo il sorriso di Chirone quando avvertiva felice che non tutto era in questa storia, che sarebbe giunto Chi avrebbe unito gli opposti più opposti. Forse, mi dico, quando il mito finirà, sarà una santificazione della materia, un corpo nuovo e più vero, non solo quello lucente di Euridice, ma di durevole carne, di sangue che correrà all’infinito nelle vene, di battito perenne -qualcosa di troppo indistinto ancora per poterlo desiderare, ma così bello e giusto che il pensiero lo insegue per circoscriverlo.

 Così mi consolo della città grigia: quelle mura mi attendono, mi vogliono. So che non devo andare e resto qui, ma qui non so chi sono. Mi perdo tra le fanciulle. Con Chirone ero la diminuizione di tutta quest’età triste; la incarnavo, la significavo al bosco intero -intorno a me, non mi vergogno, c’era pietà. Quando sono partito il centauro ha chinato il capo e si è addormentato sotto un tasso; forse ancora dorme e mai più si sveglierà. Qui tutti vegliano, vivono, parlano, ma nulla mi raggiunge, nessuno vede Achille in questa tunica femminile, nessuno sfiora il suo cuore e piange con lui.

Ecco, in fondo alle fanciulle, tra i loro veli e sorrisi, sento un squillo di tromba, perentorio; vedo uno scudo, una spada, che nella loro durezza fanno di nebbia dolce le figlie di Licomede; e un viso d’uomo abbronzato, soddisfatto dell’esser suo e della condizione che il Fato gli tessè; un volto non da megaron, ma d’agorà, che dice quel che non pensa, tessitore di soluzioni tanto abile che tutti lo seguono. Odisseo è il suo nome. Nei discorsi di lui c’è la mutevolezza che un tempo mi manifestava mia madre nel gioco e il mondo intero nel bosco di Chirone; c’è tutto e il contrario di tutto, ma non è più vero. Alla mia disperazione basta il ricordo appena della libertà che fu, adesso limitata alle parole, non più ai corpi e alle cose; basta l’idea di contrastarla.

Davanti a queste armi, allo squillo, io mi sento riconosciuto. Questa l’unica completezza che mi è concessa -sono il tassello che s’incastra nel blocco di pietra, il masso necessario al proseguimento della costruzione che non vedrò con questi occhi umani. Nell’opposizione mia a quest’uomo c’è un sollievo immenso, che manca alla gioia di conservare la propria vita qui nella reggia, in menzogna, e rende vano ciò che diranno di me, indifferente il mio prossimo divenire mito: che giochino con i discorsi, si affannino intorno a versioni innumeri; che si stanchino di parole, fino a che non giunga la Parola che li fermerà: io consolato dalla definizione mia davanti a Odisseo accetto la sorte assegnatami, affinchè Essa giunga.

 Questa età naufragherà nelle acque del Mediterraneo, durante il ritorno dalla città ferrosa, tra i flutti che sommergeranno e cancelleranno gli ultimi eroi e coloro che vissero con loro. Non questo conta, nè i miei compagni Achei re e capi d’uomini, che entreranno nella città, avranno ritorni lunghi e seminati di morti; e ogni cosa perderanno tornando, trono, terra, sposa, e figli. Costruiranno invano un muro sull’istmo del Peloponneso, combatteranno invano contro nemici nuovi e fierissimi: vana ogni loro cosa dopo il ritorno -sento silenzio sui loro tetti, nei loro megara ben costruiti. A me le armi appena, i duelli sonanti sotto le mura, un corrusco di spade subito spento, e l’Ade spalancato. Non Elena, nè l’isola candida, nè il Tartaro oscuro; Orfeo mi attende in corpo lucente, con Euridice al fianco, il Minotauro corre nei prati di Persefone, e chissà cos’altro, e come.

L’uomo nuovo, Odisseo, mi scruta, mi cerca. Davanti a lui mi definisco e forte grido il mio nome: Achille, l’ultimo eroe.

Achille a Sciro,2

Perchè, caprettino, verso la cristallizzazione si va e deve andarsi, verso la rigidità e la distinzione, affinchè possa giungere la misteriosa congiunzione che ci riscatterà. Io ero al termine, ma non ero solo al termine dell’antica età, e non solo Chirone era con me: c’era il bosco intero, mutato orrendamente.

Sotto la guida del centauro vedevo riduzione di ogni cosa, distinzione e separazione, caducità, e in queste novità una bellezza nuova, un’ansia di vedere e intendere che faceva tutto fulgido. In qualche luogo e tempo lontani s’era commesso un gravissimo errore, una disubbidienza, o una negazione, e l’ombra che era presente fin dall’inizio, ma cacciata, ora vinceva e s’allungava su tutto, spingeva a un amore più grande verso ciò che brillava sull’orlo del buio prima di calare in esso. Gli dei davvero erano stanchi, e vecchissimi; nel cielo si torcevano e avvampavano, sentendo avvicinarsi ciò che sgretolava la potenza loro. Si rifugiavano nei riti, lasciavano racconti agli uomini, che intorno ad essi impazzivano. Il centauro correva con zoccoli terribili in ogni luogo del bosco, avvisava che questa diminuizione era l’inganno estremo, che non bisognava curarsene, per non rafforzarla e farla più vera –sorriderne invece, accettarla, baloccarsene; ma io vedevo che anche lui invecchiava. Preparava ancora pozioni e doni, ma solo per gli abitanti del bosco; e nessuno più veniva dai luoghi lontani dell’Ellade a cercare cure o consigli presso di lui.

A quel tempo, di notte presi a vedere la città che oggi mi tormenta, ma ancora indistinta, cinta da nebbie, più minacciosa di adesso che è tanto vicina. Nel corpo il tallone sinistro mi doleva, sembrava innalzarsi a cuneo e penetrare fin nel cuore con lunghe trafitture e scosse, un nemico, un estraneo. Il centauro allora mi accennava alla vecchiaia del mondo intero, a come prima la vita fosse lunga e felice. La mescolanza di sembianti già era uno scadimento dell’unione che al principio regolava la terra -gli alberi dianzi alla fame dell’uomo sporgevano frutti, docili il lupo e il leone dormivano presso il fanciullo e la donna; nessuna violenza, durante quel principio brevissimo. Un riflesso di quest’antica condizione lo trovavo in lui quando s’avvicinava a certe cortecce, alle erbe che usava per le pozioni: le fissava intento, in un colloquio amoroso, in una fusione colma di letizia. E io intanto nel cielo scorgevo bagliori freddi, siderali, come di metallo sconosciuto, segni dell’era nuova e triste che s’approssimava.

Chirone sapeva più di quanto mi dicesse, o piuttosto vedeva senza capire. Accennava a saggi uomini venturi, a svelamenti, a un’alleanza santissima, adamantina. Sarebbe giunto chi, avendo ascoltato la musica delle sfere, avrebbe proibito ai suoi alunni di spezzare il pane, per rispetto a Colui che l’avrebbe fatto a fissare l’alleanza eterna fra Cielo e uomini.

Io non capivo, guardavo i riflessi caldi delle lame in bronzo e la gola mi si chiudeva dall’affanno. Portavo al centauro i cinghiali che avevo ucciso nel bosco ed egli mi diceva

-Ecco, hai udito lo sbuffare dell’animale; un fruscio ed hai colto il suo sguardo, il raspare delle zampe; un tempo esso sarebbe venuto da te a capo chino e tu avresti pianto nel colpirlo-

ma a me piaceva correre a perdifiato fra i cespugli, acquattarmi e farmi di pietra e metallo per resistere alla furia del cinghiale -altro non volevo che durare così.

Le parole di Chirone, la visione sua, si spezzavano, divenivano oscure e frammentarie. Balbettava, col capo ciondoloni, come addormentato, dell’Unico, del Mediatore; Egli scorre, scorre luminoso sull’asse dei solstizi, sulla linea degli equinozi, allarga e raddrizza la croce del cielo e vi si fissa, a reggere il mondo, e il mondo intero fissa al centro di quella croce; e nel suo scorrere e brillare in duplice natura, vanifica ogni mistione di forme precedente, la fa gioco rozzo, strumento primitivo -e insieme la giustifica, l’assolve in sè sciogliendola.

-Non tutto finito, come tu dici, caprettino, e destinato a morte. Al contrario, tutto provvisorio, come incompiuto, fino al Regno.

Tutto salvato, ancora una breve attesa.

Capivo solo -nel mio sangue lo capivo, lo trovavo scritto in non umani segni- ciò che mormorava nel sonno a mio riguardo; spiavo il suo mormorio, lo catturavo e me lo ripetevo. Apprendevo così che nulla mai avrei avuto davvero, fermato ancora, per sempre, un attimo prima del compimento. Avrei amato una fanciulla che sarebbe stata sacrificata dal padre prima delle nozze con me, poi una donna morta che sarebbe sembrata un uomo, infine una nemica, una barbara intorno alla quale erano molti tradimenti: nessuna di esse avrei avuto, Le vedevo tutte queste eterne fanciulle, destinate dall’incontro con me a non conoscere nozze -l’ara del sacrificio, il ferro nel bel petto, il terrore che rende folli. Le amavo già tutte, prima di vederle e perderle, come immagini di me stesso. Crollavo: tutta la mia vita fuori dal bosco sarebbe stata una ripetizione dell’immortalità sfiorata e mancata, e quel trattenersi della mano materna era per me la forma di tutti i fatti a venire.