Perchè, caprettino, verso la cristallizzazione si va e deve andarsi, verso la rigidità e la distinzione, affinchè possa giungere la misteriosa congiunzione che ci riscatterà. Io ero al termine, ma non ero solo al termine dell’antica età, e non solo Chirone era con me: c’era il bosco intero, mutato orrendamente.
Sotto la guida del centauro vedevo riduzione di ogni cosa, distinzione e separazione, caducità, e in queste novità una bellezza nuova, un’ansia di vedere e intendere che faceva tutto fulgido. In qualche luogo e tempo lontani s’era commesso un gravissimo errore, una disubbidienza, o una negazione, e l’ombra che era presente fin dall’inizio, ma cacciata, ora vinceva e s’allungava su tutto, spingeva a un amore più grande verso ciò che brillava sull’orlo del buio prima di calare in esso. Gli dei davvero erano stanchi, e vecchissimi; nel cielo si torcevano e avvampavano, sentendo avvicinarsi ciò che sgretolava la potenza loro. Si rifugiavano nei riti, lasciavano racconti agli uomini, che intorno ad essi impazzivano. Il centauro correva con zoccoli terribili in ogni luogo del bosco, avvisava che questa diminuizione era l’inganno estremo, che non bisognava curarsene, per non rafforzarla e farla più vera –sorriderne invece, accettarla, baloccarsene; ma io vedevo che anche lui invecchiava. Preparava ancora pozioni e doni, ma solo per gli abitanti del bosco; e nessuno più veniva dai luoghi lontani dell’Ellade a cercare cure o consigli presso di lui.
A quel tempo, di notte presi a vedere la città che oggi mi tormenta, ma ancora indistinta, cinta da nebbie, più minacciosa di adesso che è tanto vicina. Nel corpo il tallone sinistro mi doleva, sembrava innalzarsi a cuneo e penetrare fin nel cuore con lunghe trafitture e scosse, un nemico, un estraneo. Il centauro allora mi accennava alla vecchiaia del mondo intero, a come prima la vita fosse lunga e felice. La mescolanza di sembianti già era uno scadimento dell’unione che al principio regolava la terra -gli alberi dianzi alla fame dell’uomo sporgevano frutti, docili il lupo e il leone dormivano presso il fanciullo e la donna; nessuna violenza, durante quel principio brevissimo. Un riflesso di quest’antica condizione lo trovavo in lui quando s’avvicinava a certe cortecce, alle erbe che usava per le pozioni: le fissava intento, in un colloquio amoroso, in una fusione colma di letizia. E io intanto nel cielo scorgevo bagliori freddi, siderali, come di metallo sconosciuto, segni dell’era nuova e triste che s’approssimava.
Chirone sapeva più di quanto mi dicesse, o piuttosto vedeva senza capire. Accennava a saggi uomini venturi, a svelamenti, a un’alleanza santissima, adamantina. Sarebbe giunto chi, avendo ascoltato la musica delle sfere, avrebbe proibito ai suoi alunni di spezzare il pane, per rispetto a Colui che l’avrebbe fatto a fissare l’alleanza eterna fra Cielo e uomini.
Io non capivo, guardavo i riflessi caldi delle lame in bronzo e la gola mi si chiudeva dall’affanno. Portavo al centauro i cinghiali che avevo ucciso nel bosco ed egli mi diceva
-Ecco, hai udito lo sbuffare dell’animale; un fruscio ed hai colto il suo sguardo, il raspare delle zampe; un tempo esso sarebbe venuto da te a capo chino e tu avresti pianto nel colpirlo-
ma a me piaceva correre a perdifiato fra i cespugli, acquattarmi e farmi di pietra e metallo per resistere alla furia del cinghiale -altro non volevo che durare così.
Le parole di Chirone, la visione sua, si spezzavano, divenivano oscure e frammentarie. Balbettava, col capo ciondoloni, come addormentato, dell’Unico, del Mediatore; Egli scorre, scorre luminoso sull’asse dei solstizi, sulla linea degli equinozi, allarga e raddrizza la croce del cielo e vi si fissa, a reggere il mondo, e il mondo intero fissa al centro di quella croce; e nel suo scorrere e brillare in duplice natura, vanifica ogni mistione di forme precedente, la fa gioco rozzo, strumento primitivo -e insieme la giustifica, l’assolve in sè sciogliendola.
-Non tutto finito, come tu dici, caprettino, e destinato a morte. Al contrario, tutto provvisorio, come incompiuto, fino al Regno.
Tutto salvato, ancora una breve attesa.
Capivo solo -nel mio sangue lo capivo, lo trovavo scritto in non umani segni- ciò che mormorava nel sonno a mio riguardo; spiavo il suo mormorio, lo catturavo e me lo ripetevo. Apprendevo così che nulla mai avrei avuto davvero, fermato ancora, per sempre, un attimo prima del compimento. Avrei amato una fanciulla che sarebbe stata sacrificata dal padre prima delle nozze con me, poi una donna morta che sarebbe sembrata un uomo, infine una nemica, una barbara intorno alla quale erano molti tradimenti: nessuna di esse avrei avuto, Le vedevo tutte queste eterne fanciulle, destinate dall’incontro con me a non conoscere nozze -l’ara del sacrificio, il ferro nel bel petto, il terrore che rende folli. Le amavo già tutte, prima di vederle e perderle, come immagini di me stesso. Crollavo: tutta la mia vita fuori dal bosco sarebbe stata una ripetizione dell’immortalità sfiorata e mancata, e quel trattenersi della mano materna era per me la forma di tutti i fatti a venire.
di nuovo… wooow
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Sei bravissima! te lo dico col cuore, è davvero un piacere leggerti (so che è sbagliato ma mi piace dire “leggerti” perché è come se leggessi la tua anima, ciò che ti porti dentro, i tuoi pensieri, ciò che ti fa brillare il cuore, e palpitare perché tu ti senta realmente felice, piena, appagata).
E perciò “ti leggo” (leggo te) sempre con attenzione e con emozione.
Ti abbraccio cara Amica, continua, la tua anima è piena di cose belle
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Rebecca carissima, non sono molto presente, intendo realmente presente in questo periodo, troppe angosce. E trovare le tue parole mi aiuta molto. Questo è un vecchio testo, che amo molto.
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Mi dispiace, davvero tanto e ti auguro il meglio, sempre.
Comunque Grazie perchè ti sento sempre vicina. ❤ sei tanto cara per me
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Anche tu (milioni di cuoricini)
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