Maggio 878, 3

0619_-_Siracusa_-_S._Lucia_alla_Badia_-_Foto_Giovanni_Dall'Orto,_22-May-2008

Restammo. Duecento bizantini un’oncia di grano, cento un cesto di verdura -poi anche le monete non furono più nulla e non vi fu più cibo. Mangiavamo le rose nei vasi, le radici; bollivamo stoffe, cinghie, scarpe, fino a renderle una poltiglia masticabile -che il ventre fosse pieno o vuoto, i dolori ci stringevano. Ogni cosa esisteva solo per essere o non essere commestibile. Più nulla era l’oro, i palazzi ben costruiti, la nobiltà dei natali, i legami tra le persone e ogni regola di vivere decoroso. Tutto era possibile.

Ho percosso un vecchio servo che era in casa dalla mia nascita, perché l’ho sorpreso a mangiare il pane secco che era il mio pranzo, e mentre lo schiaffeggiavo egli masticava, a bocca serrata.

Le madri ricacciavano in gola ai figli le cose che questi avevano vomitato, non avendo altro con cui nutrirli. Si mormorava che qualcuno mangiasse cadaveri, che uccidesse persino i più robusti e ne conservasse le carni sotto sale. Così il nemico era già all’interno e ci si guardava dai concittadini, dalle vie della nostra stessa città, che difendevamo come una madre.

Con la fame, tutto era perduto e falso. Di nulla mi importava. La morte certa sedeva in teli neri sugli spalti, spingeva le onde del mare, muoveva i corpi a congiungersi, vuotava le cantine, in attesa anche di me, dell’invincibile, immortale Demetrio. Le difese che ero solito alzare contro tali pensieri cadevano. Il silenzio meridiano e profondissimo, che si stendeva per meglio far udire gli schianti cadenzati delle petriere verso la Torre Grande, significava quello finale che ci attendeva; e la gran luce del mezzodì, rotta appena, in cima alle mura, da poche figure avvolte in mantelli scuri, era annuncio di quella divina che si preparava per tutti noi.

Andavo nei luoghi solitari degli spalti, a oriente, là dove non vi erano combattimenti. Con indifferenza Costantinopoli perdeva Siracusa: non un verso, un monito a ricordarla, solo un ultimo luccichio di elmo e lama, il volgersi triste di un profilo su uno sfondo di tenebre. Infine non andai più sulle mura, non abbracciai più Eudossia. Di giorno cercavo avanzi di cibo in cantina e nei vicoli intorno al mio palazzo, o restavo disteso nel letto della mia stanza a guardare il sole dorare ora una ora l’altra parete, addormentandomi per debolezza al tramonto, quando avrei dovuto salire sugli spalti. Mi sembrava di aver già fatto tanto, dato tanto; l’assedio era un’offesa, un torto imperdonabile.

Nelle strade bruciava un sole nuovo, che si sarebbe detto appartenere all’estate, non al principio di primavera. Le mura degli edifici già all’alba parevano di metallo incadescente, il crogiuolo di una divinità antica e crudele che vi rimestasse per trarne armi spaventose, in un candore dove i volti della coppia imperiale erano distanti, la Vergine delle icone presaga e dolorosa, e io stesso una superficie  sottile, curvata ora dall’orrore esterno ora dalla paura interna.

Che cosa avevo mai avuto, mi dicevo, che cosa era stato come credevo e volevo? Frode ovunque e sempre, la città, Eudossia, il mio stesso valore. Adesso capisco che nulla invece mi fu sottratto e che della vita ho vissuto tutto; che altro avrei dovuto vivere? Cos’altro, se non questo avvicinarsi al limite, e vedere tutto, ogni luogo e persona mutare e farsi estraneo o sparire? Solo fu più rapido; e solo per viltà avrei desiderato una fine lenta, una morte inaspettata.

Le grida dei rinchiusi e quelle dei carnefici, i tonfi cupi delle travi contro il portone mi chiamano dalle pietre che mi celano. Sento mia moglie rannicchiata in un angolo. Avrà perduto il viso glorioso della soglia? Ancora vorrei rivederlo, quel viso nuovo balenato per un attimo.

Lei è stata il tradimento più atroce. Negli ultimi tempi, più non la conoscevo: a sera usciva e mi lasciava ad udire l’eco del portone richiuso; addobbata con gioielli e abiti lussuosi; aveva i capelli lucidi e spessi  per la penuria d’acqua, pettinati in lunghe trecce, come code di scorpione, non più i ricci vaporosi dell’inizio; i fianchi ossuti e ampi e la tunica dall’alta cintura ben stretta sul seno; l’ultima Eudossia, senza legame con la fanciulla che mi incantò nel vicolo tirando a sè, in un solo attimo, i miei sogni sparsi, con la creatura atterrita il giorno delle nozze in Cattedrale.

Mormoravano che si vendesse ad altri per un po’ di cibo. Una sera che l’ho incontrata in strada quasi non la riconoscevo: aveva lo sguardo di Niceta di Tarso il giorno che gli Arabi lo scuoiarono sotto le mura, sotto i nostri occhi, con le pupille giravano nel bianco impazzite. Nel baluginare dei gioielli che più nulla valevano, ornata come se fosse ancora possibile la vita antica, cercava salvezza tra chi aveva ancora la forza d’amare, o fiaccava la sua fame contro l’anello delle mura, in un lungo vagare, eternamente cercando tra i blocchi di pietra la via al mondo di prima; e adesso so che quella sera avrei dovuto abbracciarla. ricondurla a casa nostra. Non l’ho fatto, ho finto di non conoscerla: mi vergognavo. Come posso essere perdonato? Come ho potuto essere tanto superbo, io che tutto ho violato, anche lei, io che fui il più grande tradimento di me stesso? Quando più non riuscivo ad alzare la spada sopra i nemici, quando mi aggiravo sugli spalti o presso la breccia delle mura e scrutavo la loro fine cercando in essa la prefigurazione della mia, cercando di capire come e cosa essa fosse, l’anima si è aperta a ciò che prima le era estraneo, come le nostre bocche che si aprivano a ingioiare ciò che un tempo era vietato e divenni voragine invece che tempio. Io che ero stato stratega e presidio di Siracusa, il fiore della sua giovinezza, divenni colui che contava i morti,  che accompagnava gli agonizzanti;  memoria degli errori, delle frodi, delle carni putrefatte; colui che abbandonava persino sua moglie.

Fui ingannato e soprattutto ingannai: questa è stata la mia vita, e forse quella di tutti. Che cosa fu vero? le sere con Eudossia, dopo il matrimonio, quando, prima di andare sugli spalti sedevamo vicini nella loggia orientale. Vociari lontani, fili di fumo, acqua e cielo striati di porpora imperiale –e subito un grido dagli spalti, un’ombra sul volto di lei, spezzava la pace; la tinta scarlatta tornava  ad essere il riflesso del sangue sparso, la notte saliente dal mare era lo specchio freddo dei nostri giorni.

Le torce, un crepitare lento e sommesso, poi l’esplosione di un rombo cupo, di potenza rattratta e oppressa, finalmente liberata. L’odore di bruciato, lo strinire di stoffe e capelli alle fiamme sovrastano le urla. La chiesa è in fiamme.  Umidore in tutto il corpo, il cuore forte si prepara col battito alla fine, lui che per molti anni ancora avrebbe potuto rintoccare in questo mio corpo. Distinguo ogni aroma mentre si consuma nel fuoco. Questo è il legno delle travi che ci coprirono, queste le vesti, questi i riccioli di Eudossia, quest’altro proviene dalle sue membra sante e misere che colmarono i miei tempi ultimi. Tutto va con lei in fuoco e fumo.

2 pensieri riguardo “Maggio 878, 3

  1. Eccomi! Scusa se te lo dico in ritardo ma ho preferito dedicare un pò di tempo alla lettura del tuo racconto per poterlo gustare, come merita. Tra l’altro ho appena letto anche la sua conclusione, la 4 parte.
    Che dire… sei bravissima!! È un trattato, uno studio, un romanzo, un racconto, è storia vera, è leggenda, è soprattutto magnifico. Hai scelto con cura ogni parola, ci sono dettagli, nelle tue descrizioni, che sembra quasi tu fossi stata presente alle scene, e con te anche il lettore. Questa è capacità espositiva, è cultura, è sensibilità, è proprietà di linguaggio ma soprattutto e sopra tutto, a parer mio, è PASSIONE. Passione per la terra dove vivi, passione per la storia e per la letteratura, passione di cui sei piena e, per fortuna, hai la bontà di trasmettere. Grazie e complimenti per la dedizione che ci hai messo! ❤

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    1. Io ti ringrazio Rebecca del tempo dedicato a una lettura così frammentata! Il merito non è mio, ma dei maestri, perché tali erano, che ho avuto all’Università, soprattutto di Archeologia Romana e Cristiana, appunto. Mi hanno trasmesso tutto.

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