Poco lontano da qui, nel vicolo che dal Duomo giunge fino a questo spiazzo, al principio dell’assedio Eudossia mi ha rivolto per la prima volta la parola da che l’avevo veduta in quel cortile, ora crollato sotto i colpi delle petriere. Era come alata, seguita da un’ancella; babbucce lievi e zoccoli sul lastricato, occhi brillanti ed occhi opachi sotto i palazzi che quasi si sfioravano, sotto le tende e i panni stesi sui quali il sole batteva; mi accostò, nove mesi fa, che ero ancora giovane; e mentre mi salutava e mi parlava, il vento dal porto soffiava nel suo velo, gonfiandolo. Quel che prima era sparso intorno a me, i porti d’Oriente, il movimento d’uomini e cose sulle rive del Mediterraneo, le donne sui moli, le spezie di paesi misteriosi, le rotte, le avventure, le mille vite, le alghe e le funi calde di sole; tutto quel che per me in quell’aroma era vita e libertà lo trovai nel suo velo gonfiato, fra quei riccioli, e per semplice compresenza mi legò a sé e alla città. Come avrei potuto mai desiderare un’altra vita lontano da lei che tutto conteneva?
Adesso so ciò che per me era in serbo dentro a quel velo, dentro alle mura alle quali mi costrinse.
Alle mie spalle sento la Cattedrale, immensa, col sagrato gremito delle tende che vi montarono gli sfollati dai quartieri esterni e dalle campagne. Nella chiesa, buia, perché anche la cera si è mangiata per vivere, il giorno in cui ho compiuto ventitré anni ho sposato Eudossia, al principio di Gennaio, con una cerimonia breve. Lei già non era più la fanciulla incontrata all’inizio dell’assedio, ma una giovane donna dagli occhi enormi, affamati; al corpo ormai magrissimo erano appesi seni che parevano grossi sotto la tunica e fianchi larghi, anche se ossuti, come invocanti amore e maternità, i segni gonfi della vita su una morta.
La Cattedrale. Presto sarà violata -già dal lato della Porta Regia sento clamori di gioia. Subito, fin dal primo giorno, avrei dovuto sapere; quando, al serrarsi delle porte, andai alla Messa, e, mentre pregavo, tra le colonne antiche sottratte alle divinità pagane e consacrate alla Vergine Maria, ho sentito chiuso il cielo le mie parole non più, come prima, carne e sangue, ma sillabe senza senso e fede; poi, tra le fiammelle delle candele intorno all’altare, le colonne si sono fatte candide, come dovevano essere prima che il Salvatore giungesse, e una fanciulla in armi, terribile, splendeva in fondo alla navata. Lucevano dall’elmo gli occhi azzurri, si piegavano le gambe forti, abituate a correre nei boschi, scattavano i fianchi stretti e sterili -ella s’avventava su di me. Non chiusi gli occhi in attesa del colpo, la fissai immobile: mi attraversò senza vedermi, scuotendo le armi con fragore orribile. Tutto abbandonava la città, ogni favore divino, persino le antiche divinità che l’amarono, e io non volli capire.
Ancora clamori, più vicini. Ancora pochi attimi. Tacciono ormai le macchine petriere, i Siracusani nascosti, le preghiere ormai dimenticate, o mormorate solo in cuore; tacciono i nemici che avanzano ancora incerti, ignari della città. Come vedranno Siracusa che per nove mesi fu chiusa gloriosamente a loro, che offrì solo l’anello di mura candide? Siracusa la nobile, prediletta dall’Imperatore; Ortigia, corona di torri, cuore staccato dalla città intorno al quale la città viveva, nave maestosa, regno santo di Costantinopoli, certezza. Voleva prendere il largo, allontanarsi dalle colline dove si stendevano i quartieri di Tyche e Acradina, dai monti Climiti che la guardano severi, ma era trattenuta dall’istmo; e ora essa trattiene noi.
Al principio dell’assedio, catene lunghissime, di acciaio temprato, chiusero i porti di Ortigia; e là dove navi di ogni porto avevano transitato a recare mercanzie, si fronteggiavano navi da guerra. Guardavamo i porti dalla Torre grande, sull’istmo presso la Porta Regia e credevamo di vincere.
Greggi pascolanti sul colle Temenite! passione, passione per la città perduta! Eravamo felici e non sapevamo d’esserlo…
Altre città ebbero poeti, memorie e gloria: la nostra affonderà nel buio che si addice a questo tempo triste, di imperatori lontani, di fedi incerte. Il mio maestro mi leggeva di un lungo assedio sotto le mura di una città lontana; vedevo il poeta antico e la dea che l’aveva ispirato camminare fianco a fianco su per una strada ripida, lui vecchio e lacero fra i sassi polverosi, lei agile e giovane, vestita di bianco e d’oro, in corsa lieve sopra il basso muretto al quale il poeta di tanto in tanto s’appoggiava vinto dalla debolezza. Vedevo la dea alzare le braccia per bilanciarsi e scoprire la rotondità di seni e fianchi, fanciulla e matrona, la vedevo avvicinare il volto a quello del poeta e guardarlo a lungo -occhi brillanti contro occhi ciechi e spenti; la vedevo chinarsi e baciare il vecchio sulla bocca, dischiudendo le labbra rosee e morbide come i molluschi di un tempo a Porta Marina, e così, con quella lingua umida e veloce, infondergli il sapere suo.
Ma chi stava accanto a me nelle notti di combattimenti era una creatura spettrale, avvolta di un’ampia veste dove la luna scavava ombre, né sapevo in quali stelle cercare i suoi occhi. Non più canto, ma un ordine: scrivi! Scrivi alla chiesa di Smirne, di Efeso, di Laodicea, che Siracusa è perduta -ma questo io non riuscivo a scrivere.
Ancora il Patricio guarda, dalla finestra della Torre; o forse è un mio vaneggiamento, il sogno di una mente incerta per la paura. Colpa sua se giungemmo a questo. Il Patricio, cugino di mia madre, da quando sono nato governa la città per conto dell’imperatore. Dal sagrato del duomo, dall’alto delle torri, sono piovute le parole sue, giuste, sante, pacate; fermavano, inducevano gli uomini a tornare là dove indicava colui che era l’ultimo legame con il mondo sotto la cui aquila eravamo nati e vissuti, l’unico garante che davvero esistesse, e fosse di noi sollecito, quell’imperatore che ci guardava con occhi rotondi da arazzi e mosaici. Io restavo ai margini dell’incanto, sentivo come perdevano e salvavano le parole del Patricio; a morto rintoccavano sulle teste, placavano le dicerie sul grano nascosto che da più parti si levavano, ma in nulla mutavano le cose: solo inducevano ad accettarle, e tuttavia sacrilegio sarebbe stato negare quelle parole; le custodivo nel cuore per la notte, quando sarei salito sugli spalti a uccidere .
Al principio dell’assedio da lui apprendemmo che l’Imperatore presto avrebbe ricevuto la nuova dell’assedio alla città cristiana, e sarebbe balzato in piedi dal trono, furente. Presto la sua flotta avrebbe forato l’azzurro a oriente -forse già domani i fuochi sui monti Climiti ne avrebbero annunciato l’arrivo.
E quando le catene dei porti caddero, il Patricio ci mostrò l’imperatore che già aveva radunato tutte le navi tra Africa e Grecia: già esse procedevano sospinte dal vento favorevole che gli angeli soffiavano, gonfiando le gote; doppiavano il Peloponneso in assetto di guerra, e quasi vedevamo sull’ammiraglia il Re ergersi sulla tolda, con i difensori dei Sacri Fianchi inginocchiati accanto, come sulle monete.
Ad Aprile vi fu l’ultima menzogna, la più dolorosa. Dopo il temporale, che ci approvvigionò d’acqua, dopo l’incendio di una petriera che ci liberò per un poco dalla paura, al principio del mese, i presagi fausti si infittirono, pesche eccezionali alleviarono la fame, e a occidente, sui monti Climiti, i fuochi accesi annunciarono l’arrivo prossimo della flotta bizantina guidata dallo stratega Adriano. Il Signore degli eserciti ancora non aveva distolto il suo volto e l’anello di mura presto si sarebbe schiuso, ci annunciava il Patricio dalle verande del palazzo.
Attesa. Infine qualcuno disse che il navarca Adriano da troppo tempo attendeva nel Peloponneso il vento propizio, e ancora lo attende: le navi dalle vele ammainate erano all’ancora nella rada, i marinai sparsi per boschi e villaggi, in cerca di vino o donne, gli ufficiali bevevano sulle tolde. Un sortilegio, una magia egiziana, respingeva siracusani e romei sulle rive opposte d’uno stesso mare, chiusi questi nelle mura, quelli nei boschi, bisognosi gli uni degli altri, ma destinati a non raggiungersi mai.
Un giorno gli aliti stregati delle selve cesseranno, lasceranno luogo al vento giusto: ma cosa troveranno giungendo qui? La Torre spezzata, e macerie rigate di travi carbonizzate; solo cose rotte, senza uomini. E quando questo si seppe, ancora le parole del Patricio a coraggio e speranza chiamavano dalla vetta della Torre; fugaci come le rondini che lasciavano la città, così belle da non poter sembrare false, e ci immettevano in un ordine più vasto -e tutti, tranne me, continuavano ad affilare le spade, preparare le frecce. Io no, io avevo lasciato gli spalti.
Adesso lo perdono di tutto ciò che disse; una forza più grande di lui e di tutti noi lo ingannò.
Restammo. Nessuno sa perché.
Lascia senza fiato, complimenti!
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Grazie Rebecca, un abbraccio
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Una bellissima rievocazione: Complimenti,
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Grazie a te, sono davvero felice.
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