Nessuna vistosa autorità regale, 14

Quando sono tornato al motel, dopo Janine e il barista, Anastasia era seduta sul bordo del letto e non sembrava essersi accorta della mia assenza. La stanza aveva odore di chiuso. I rammendi delle lenzuola, le tende polverose, entravano nella coscienza con tutta la loro abiezione. Le cose che si sopportavano per una notte d’amore io le sopportavo per una fuga.

-Andiamo, ci cercano-

il suo respiro era pesante, terminava con un sibilo. Ha annuito ed è andata in bagno. Lo scroscio dell’urina e dell’acqua. Il dono ricevuto mentre mi alleggerivo sulla prostituta, la figura di Anastasia giovane, si disintegrava, sogno malato, miraggio, fantasma.

Lei si è accomodata nel sedile, è stata in silenzio finchè non siamo arrivati in aperta campagna, poi ha mormorato

-Rasputin- ha biascicato scuotendo la testa..

-Lui mi voleva perché ero io. Tutti gli altri perché ero Anastasia Romanova. Anche il soldato, quella notte a Ekaterinburg – e ha detto questo nome con rabbia, come se raspasse a una porta – mentre mi violentava, tremava e aveva paura perché ero la granduchessa. E tutti quelli dopo, anche loro mi hanno voluta per questo. Anche tu, nel tuo modo, mi hai voluto per questo e basta-

-Era così prima, ora non più-

Lei annuisce –E’ vero. Ora sono tua moglie nel modo giusto, e anche se il tempo sta finendo, non importa-

-Ancora no- e acceleravo prendendo l’autostrada -Sai pregare Anastasia? Hai mai pregato?-

-Pregavo, prima. Prima che uccidessero tutti. Poi ho smesso-

Pregavo sì. Pregavo che non finisse presto, che non finisse in modo ignobile, indegno di una donna che non aveva mai voluto niente. Quando il suo nome era famoso e tutti parlavano di lei a New York e i giornali pubblicavano la sua foto, avrebbe potuto sposare un americano ricco e sopravvivere bene, rilasciando interviste di tanto in tanto e facendosi fotografare seduta su un bel divano, con qualche figlio, e tappeti persiani sotto i piedi. Qualche riccone americano, desideroso d’Europa, avrebbe volentieri sposato la bella donna che lei era negli anni trenta. Ma lei ha preferito non avere nulla, che accontentarsi. E finiva con me, su qualche strada americana, in qualche clinica o prigione, dopo anni di gatti e patate. Regale, ma triste.

-Ho fame- Un altro bar accanto a un distributore, sotto alberi alti. Tutto verde, ben messo.

-Scendo io, cosa vuoi?-

-Un doppio hamburger  con salsa cheese e una Coca Cola-

Non era la colazione di una principessa, né di una contadina, né di una donna di ottant’anni, ma forse era la sua ultima colazione libera. E aveva qualcosa a che fare con la scelta di non sposare un riccone. Se non si poteva avere il filetto alla Stroganoff che veniva preparato nella  reggia degli zar, tanto vale un hamburger.

Bancone del bar americano, ultimo amico mio, altare su cui deposito la mia fuga e la mia disperazione per pochi attimi, per il tempo necessario a preparare un doppio hamburger e posso fare finta che tutto sia normale e giusto. Lo specchio mi restituisce la figura di un cinquantenne a pezzi, occhiaie, faccia pesta camicia sporca. Ehi mister, non sono io, c’è un errore, ridatemi la mi faccia, quella è la faccia di un uomo in fuga, di un uomo finito perché ha perso la sua bella amata. Invece io sto solo accompagnando chi dice di essere l’ultima Regina verso la fine, ma lo sapevo che doveva finire, siamo persone mature. Siamo americani coraggiosi. Non c’è bisogno di ridursi così.

Caffè con un dito di bourbon. Anche più di un dito, mister. Giusto per potersi voltare e affrontare il mondo saggio che da sempre evito.

-Cominci presto, eh?- ha fatto il cameriere. Ho scosso le spalle.

-Giusto per tenersi su-

 Quello mi ha fissato appena troppo a lungo e ho sentito sulla pelle tutti i pensieri della notte e l’abbraccio con Janine e il motel squallido, tutti tatuati sulla pelle. Gli sguardi obliqui delle persone ai tavoli erano i chiodi che fissavano una rana alla tavoletta dell’esperimento. Sono io, sono l’idiota americano che si è fatto incantare dalla regalità, come qualche nostro connazionale che pensava di comprare il Colosseo. Io forse ce l’ho fatta, forse ho avuto, ho comprato la regalità, ma ci ho girato attorno senza possederla davvero e ora me la stanno togliendo. Al prossimo distributore me la toglieranno. E non sapevo ancora togliere quei forse dal discorso, neppure alla fine della fuga.

Quando lei ha finito di mangiare, è sporca di ketchup gli angoli della bocca. In altri momenti l’avrei trovata odiosa, ma ora era tutto senza importanza. Tutto cadeva a lato, come foglie secche, restava solo quel po’ di strada che ancora avevamo e quel che conteneva. L’ho pulita come avrei pulito una bambina.

-Stai attenta- come se fosse fondamentale, ora che stavano per prenderci, farsi prendere puliti

Quando sono ripartito è avvenuta una cosa strana. Forse il bourbon, forse qualcos’altro. All’improvviso ho sentito l’aria fresca, profumata dei campi, e i rami degli alberi frusciare per il vento, e gli uccelli cantare in alto. Come è possibile che ci sia la vecchiaia, come è possibile morire e finire se tutto questo è dato, questa forza, questo slancio. Sembrava quasi che si volesse morire e finire, che lo si decidesse, caparbi e sciocchi, quando la felicità era a portata di mano. La fine come scelta. Forse ero io che mi arrendevo, lei che si arrendeva. Stavamo per dare un consenso spaventoso. E gli uccelli tuonavano più forte dagli alberi alti e io mi sentivo felice anche se stavo per finire con lei. Tutto era possibile, anche i sogni più folli, rispondeva il clamore degli uccelli e dei rami. Ma come, dove. La durata, il colpo di scena era nelle pieghe di questo canto, di questa strada, che si apriva come se ballasse, ariosa, un ventaglio che si faceva di qua e di là. Primavera anche per l’asfalto, per tutte le strade d’America. E per noi due che primavera era? Lei taceva e guardava fuori dal finestrino, con tutte le sue rughe addosso.

-Voglio sapere cosa pensi di me, non me l’hai mai detto. Sono un piccolo borghese, vero? Anche se ieri mi hai chiamato Maestà-

Ero un piccolo borghese americano, non era facile da dire. L’avevo sposata per sperare di avere accanto il massimo di una nobiltà e di un passato che non mi toccavano. Solo un piccolo borghese poteva sposare questo incerto resto di regalità; quando di re veri non ce ne erano più, tutti mantenuti in vita artificialmente da parlamenti e popolo per nostalgia.

Ha annuito guardando i campi. -Sei stato molto buono. Io certe volte sono odiosa-

-E’ che sei troppo principessa-

-Da Irina ho tirato le calze alla cameriera. Lei rifacendo la stanza non le aveva raccolte e io gliele ho tirate perché altrimenti non sarei sembrata la granduchessa che sono. Chiunque si aspettava una cosa del genere. Era il periodo in cui tutti mi stavano a guardare per sapere chi ero. E io li ho fatto contenti.- Sorride

– A casa non l’avrei mai fatto di sgridare una cameriera per questo. Ma se avessi mostrato, dopo Ekaterinburg, come eravamo state cresciute noi ragazze, nessuno avrebbe creduto che ero Anastasia. Ci alzavamo alle sei di mattina, dormivamo su brandine. Ricamo, studio e niente feste. Chi l’avrebbe creduto?-

-Ma tu perché volevi che ti credessero quella che sei, Anastasia?-

Di nuovo guardava i campi

-Per essere meno sola. Per parlare con qualcuno dei miei genitori e dei giorni felici, quando eravamo tutti insieme-

-E anche per i soldi depositati nelle banche inglesi- presto, dovevamo dirci tutto. Non c’era più tempo. Ci dovevamo anche offendere, se necessario, ma non ci poteva più essere nulla di non detto.

-Sì, anche. Ma anche, non solo per questo. No, non solo per questo-

Il tesoro dei Romanov, che ormai giaceva al sicuro.

-E quelli che dicono che lo zar non aveva depositato nulla all’estero?-

questo era nelle testimonianze del processo. Alcuni cugini di Nicola II avevano giurato che lo zar aveva milioni in denaro e gioielli nelle cassette di sicurezza di Londra. Altri avevano giurato che non c’era niente. Tutto doppio, come sempre.

-C’era un uovo di Fabergè che mi piaceva tanto. Papà me lo faceva tenere in mano ogni Pasqua. Fabergè mi voleva bene. Un giorno, mentre andava via dal palazzo si era chinato su di me e mi ha chiesto:” Come desidera Sua Altezza che sia l’uovo di questa Pasqua? Lo zar ha detto di farlo come voglio” e io gli dissi che lo volevo azzurro, con dentro un uccellino che cantasse. E così fu. Papà diceva che quell’uccellino ero io, nata per rallegrare la famiglia-

-Ed è in Inghilterra? Insieme al denaro?-

Lei ha annuito

-Papà mandò casse intere in Inghilterra al principio della guerra. Così tutto quel che è mio è là. Presto se lo spartiranno-

Che strano, non avevamo mai parlato di questo. E di quante altre cose non avevamo mai parlato, tutti presi dai gatti, dalle spie in strada, dalle erbacce e dai vicini? Il tempo sprecato mi piombò addosso come una manata tra le scapole. Forse per tutti era così, magari quando sta morendo qualcuno di caro, e ci si accorge con allarme e paura che non si ricordano bene i racconti di chi sta andando via, non si è stati a sentire con attenzione. Una presenza che svapora e non si può più afferrare, come la nebbia. Quanti chilometri avevamo ancora davanti, quanta strada? Cosa era meglio cercare di sapere?

-Tanto si sono presi già tutto. Si sono sempre presi tutto-

5 pensieri riguardo “Nessuna vistosa autorità regale, 14

  1. Capisco il tuo narratore: rendersi conto che ci sono racconti che non si ricordano bene, che ci sono cose che non ci si è mai curati o si è sempre rimandato di chiedere, cose che ora nessuno potrà più dirci e che sono condannate a rimanere per sempre non-sapute, dà una specie di capogiro di angoscia.
    Però nel tuo racconto, credo, di questo non avrebbero potuto parlare prima: sarebbe stato un disvelare la regalità, un dissipare l’alone numinoso che ne fa la sacralità – sia pure fatto, questo alone, di “gatti, spie in strada, erbacce e vicini”.

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  2. alla fine si gioca a carte scoperte, ma è scoprendo le carte che Anastasia si fa sempre più Anastasia (A casa non l’avrei mai fatto di sgridare una cameriera per questo. Ma se avessi mostrato, dopo Ekaterinburg, come eravamo state cresciute noi ragazze, nessuno avrebbe creduto che ero Anastasia).
    ml

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