
Basta, ti ho intristito, vieni qua. Mi hai ascoltato tanto, Janine. I tuoi capelli profumano di lacca da quattro soldi che adesso mi sembra buonissima, e il nylon della tua sottoveste è morbido, anche se non è seta. Come sei morbida tu. Sei un riposo, una chiatta sovraccarica di tutti gli uomini che hai accolto e ora anche del mio racconto. La prima e ultima volta che racconto di me e Anastasia a qualcuno. Tanto sta finendo e nessuno ti crederebbe mai se riferissi le mie parole. E’ come metterle al sicuro. Sei tenera. Vieni qui. Ancora di più.L’inguine vizzo e questa floridezza a buon mercato. Non so più cosa voglio, cosa ho voluto, ma ora è bello averti vicina, vieni più in qua. Non più ossa e pelle vecchia, ma un morbido nel quale cadere e io tra le braccia ho non la prosperosa Janine, ma Anastasia come non l’ho mai vista né in foto né da vecchia, Anastasia come la vedeva Rasputin quando sogghignava sulla soglia della camera da letto, non principessa e non mendicante, senza titoli e senza offese, illesa e bella. Anastasia e basta, prima che l’amore fosse per lei violenza a Ekaterinburg, prima di non essere più fanciulla. In questa figura cado tendendo le mani per afferrarla, ma trovo solo i seni lenti della donna sconosciuta.
Non è niente Janine, Sì, mi gira la testa, sono stato abbandonato, derubato, e sono colpevole. No, non voglio ancora, cinque dollari, mi fai uno sconto. Non è questo. E’ che c’era una giovane donna per me, da sempre preparata e non avrei mai potuto averla. Perché quando lei era lei, ci dividevano troppe cose. Secoli e secoli e un paio di continenti. E ora che la ho, non è più lei, l’ho presa che me l’avevano già cambiata.
La donna mi guarda perplessa, poi alza le spalle, lenta e ampia nel letto. Ha accolto me, da sempre accoglie chiunque e questo l’ha sformata e gonfiata. E’ disfatta in questa stanzetta linda e desolata che sa d’ospedale, un letto pulito, un comodino con l’abat jour e forse la Bibbia nel cassetto.
Perché stiamo fuggendo? Mi chiedi.
Falangi macedoni, coorti disciplinate e inesorabili, flotte a vele spiegate con i cannoni carichi avanzano feroci. Così avrei immaginato e invece l’attacco frontale non è così chiaro, incontro solo gli avamposti. La fine è fatta di due medici che sono la copia dello psicologo fenicottero al college. Stesso sguardo obliquo e indagatore, stesse maniere miti e voce gentile e contraffatta, molto bassa. Quando apro la porta so già tutto. Sono venuti a prenderla. Mia moglie, la mia principessa, il mio aggancio col passato, dove era possibile e desiderabile essere diversi dagli altri.
Certo, c’è stata una denuncia dei vicini –giubilo dalle tendine bianche, l’ordine viene ristabilito. Sì, non si vive in questo modo –i gatti offesi salgono sui mucchi di patate, un esercito che si dispone per l’attacco. Avete ragione fratelli, ma io e lei siamo finiti se ci separate.
Mostrano un distintivo e un foglio. E’ l’ordine di portare Anastasia in manicomio. Ma non c’è il suo nome, c’è il nome di Anna Anderson che faccio fatica a ricordare. E’ il nome col quale l’hanno accettata e incasellata. I suoi occhi mi pungono le spalle.
-Non conosco questa Anderson- dico restituendo il foglio e alle spalle degli psicologi spuntano due poliziotti. Si fa sul serio. Non vengono con legioni e coorti, con flotte di vascelli a vele spiegate, con peltasti e falangi, ma con una diagnosi. Pericolosa a sé stessa e agli altri. Pericolosa per l’igiene pubblica. Non la vedo in questo nome, in questa descrizione. Lei non è qui, mister. Lei non è da nessuna parte se non con me vicino. Alzo la voce, tendo la mano per strattonare il poliziotto e un’altra mano, vecchia, grinzosa, macchiata dagli anni e dai dolori, si posa sulla mia e la stringe forte. Anastasia.
-Vado con loro, John. Sono sempre andata- e poi agli psicologi –Datemi il tempo di prendere ciò che può servirmi-Finito quel suo perdersi in mormorii, quel suo chiamare Marja, e il ritorno a Ekaterinburg. Maria Stuarda, Maria Antonietta e tante ancora, tutte regine. Sembra quasi contenta, come se tutto fosse stato per arrivare a questo, una vittima sacrificale che non dà soddisfazione ai suoi carnefici. O come se quei diciassette anni di vita perfetta tra Tsarkoe Selo, l’Hermitage, le bambinaie, i lini bianchi e i tigli, fossero abbastanza e dovessero essere pagati in questo modo. Questa è la regalità e la devi avere nel sangue, nessuno può insegnarla. Oppresso dalla coscienza della mia borghesità, da tutti i calcoli e i conti che i miei antenati di certo hanno fatto, non trovo nessuna parola per fermarla, solo rotti balbettii, un contadino sconvolto in ginocchio davanti al trono dello zar.
Lei avanza e le vedo intorno svolazzare come tanti straccetti che in fondo hanno piccoli specchi, ciascuno con un’immagine, il parco d’estate, il filo di perle, l’abito bianco con la fascia rossa, la foto con le sorelle e Aleksej e sopra i genitori svettanti tristi, il pianoforte e lei che cammina dritta con un libro sulla testa. Poi lei è come si ravvolgesse uno strascico e tutti gli straccetti svolazzanti e le immagini che portano si fondono in un unico lungo strascico d’ermellino
-Andiamo vi seguo- prende un sacchetto di plastica e si avvia. E così quel suo varcare la soglia di casa ristabilisce le distanze esatte tra noi, ripristina l’ordine antico, spinge di lato spie, poliziotti, psicologi e tutte le forme di controllo che America ed Europa hanno potuto immaginare, ribalta tutto e s’insedia signore. Ma davanti a chi? A due psicologi che si scambiano uno sguardo che è uno schiaffo, come a dire Vedi? E’ pazza davvero; davanti a poliziotti che si tirano su la cintura, indifferenti più delle patate disseminate nella stanza. Tutto sprecato, amica mia, non c’è più un mondo che possa accogliere questi comportamenti. Amen. La pistola del poliziotto nella pancia ferma la mia marcia al tuo seguito.
La regalità è giudicata pazzia. Amen, amen. Anche io sono pazzo, ma siccome non sono nato re, non se ne accorgono, amen, amen.
Come? Devo dirti che sei bella, bella come Marilyn? Sì, lo sei, morbida Janine. Dolce Janine, mia Marilyn, come lei tutta artefatta, capelli, mani, occhi; il massimo artificio per la massima semplificazione; piacere agli uomini come vocazione e necessità. Lei invece è la massima complessità senza nessun artificio e non vuole piacere, no di certo…Dolce Janine…non capisco più niente….
E poi vedo tutti gli dei cavalcare gli States da New York a San Francisco –Anubi dalla testa di sciacallo, Afrodite dal seno pesante semidistesa su una lettiga portata da colombe, la terribile Diana col suo corteo di cani ululanti, la dea madre della preistoria che grida nelle doglie di un parto senza fine, Odino che rotea l’ascia tra schizzi di sangue, Quezalcoatl che arranca ritorto, Horus in forma di falco e infiniti altri, fatti di tutto, di piume, scaglie e fuoco. E li segue con allegria una processione di re, tutti diretti verso la baia di San Francisco, il primo faraone, con la pelle d’oro, Napoleone con la testa coronata di colonne e cupole, Enrico VI sempre in cerca di qualcosa, Elisabetta I circondata da molti velieri, Montezuma col coltello conficcato nel suo petto, Luigi XVI che guarda in alto e dice parole che nessuno sente, Ottaviano Augusto sporco di sangue, Isabella d’Aragona seduta sulle navi di Colombo e li ho visti danzare e ridere, Napoleone bisbigliava con Odino, Venere cingeva per la vita Elisabetta I che si teneva tutta rigida e guardava fisso davanti a sé, Montezuma che inseguiva Anubi gridando a gran voce, Ottaviano Augusto che spiegava lungamente qualcosa a Luigi XVI, e poi una danza di tutti con tutti, sopra gli States, sciamando tra schiamazzi e brindisi e infine arrivare alla costa orientale e tutti, tutti che entravano nel mare di San Francisco senza guardarsi, senza parlare, ognuno godendo dell’acqua e della fine che l’acqua conteneva, scendendo lentamente nella pace azzurra e fresca delle onde all’ombra del Golden Gate.
-Accogliere è spegnere-
diceva una voce enorme alla fine del sogno e mi svegliava così. Col cuore in gola balzo dal letto dove Janine dorme e alla finestra buia guardo le strade. Sono vuote nel vento triste, uno strano contrasto col sogno tanto affollato. Assenza, mancanza che chiede spiegazione. C’è qualcosa che devo capire e non capisco nel vuoto davanti a me. Avevo sempre pensato che nel calderone americano tutto perdeva forma, tutto diventava soft, smussato e inoffensivo, pronto a essere usato per un drink, per una lezione al college, spiegato e docile. E questo era il sogno, divinità e re finiti a mollo nella baia di san Francisco e dimenticati; accolti e spenti.
Ma nel sogno non c’era Anastasia. La fine ultima del vecchio mondo europeo non era nella massa che finiva allegramente nelle acque americane, nel calderone dove ogni cosa aveva una sua strana pace. E questo che significava? Che dovevo anche io gettare qualcosa nel calderone, entrare con mia moglie nel corteo di re morti, scendere con lei nelle acque dove tutto si perde? Oppure che Anastasia mancava perché non era scritto che finisse? Forse lei non era accolta e quindi durava in qualche modo, in una qualche forma di salvezza?
Aiutami, prego, senza sapere chi stessi pregando. In quella mancanza c’è qualcosa, qualcosa che devo ancora fare, o scoprire. Il massimo respingimento che è il manicomio, al quale Anastasia è stata condannata, significa che lei non finirà. In qualche modo non finirà.
Magnifica!
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❤️
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“Sottrarsi a ciò che ancora resta di vita normale” (9) mi era piaciuto molto, mi era sembrata una chiave importante di lettura, anche oltre il significato più immediato. Ora ricompare in modo massiccio il tema della regalità, e mi chiedo se e in che misura la regalità sia legata a un sottrarsi alla vita normale, anche al di là del senso più immediato (affiora il vago ricordo di un romanzo letto molto tempo fa: Il re della pioggia, di Saul Bellow, ma non posso affermare che c’entri qualcosa).
Sono molto curiosa di vedere come andrà avanti – cioè come riuscirai a tener distinta l’aura sacrale attorno alla regalità dall’apologia di ancien régime.
Intanto complimenti per come te la cavi bene con un tema per niente facile.
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Grazie Elena. Il punto di vista di lui, che è uno storico è anche un po’ il mio, che ho una formazione a archeologa: una delle grandi domande dell’archeologia e’ come si sia giunti all’idea di re provenendo dal nomadismo paleolitico. I rituali sono simili in alcuni casi dall’Irlanda all’Egitto. E cos’ che in una società borghese distingue un re. La società attuale procede per massicce normalizzazioni, per cui un re o un artista, talvolta uno studioso, soffrono parecchio: ma dall’altro lato accoglie e tutela, come mai prima nella storia umana. È stato molto difficile cercare di rendere questo. E chissà se poi l’ho fatto 😀
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Si nota che sotto c’è una competenza specifica, e credo che tu stia rendendo molto bene un’idea complessa e probabilmente lontana dai modi di pensiero attuali (ma forse non così lontana, altrimenti non si spiegherebbe il fascino del fantasy e del primordiale). Sono sempre più curiosa di leggere il seguito 🙂
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Ecco il fantasy è molto, molto riduttivo della realtà storica, che pure un po’ di mistero ha sempre 🙂. Quanto al primordiale, se vi fossimo trasportati moriremmo nel giro di due ore. Credo che non sì debbano provare nostalgie. Ma indagare, in modo scientifico o narrativo, può appagare molto e forse dare una risposta, chissà.
P.S. Ho fatto molti errori nelle risposte. Pessima luce, pessima connessione, troppe cose da dire.
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la regalità è accettare il destino(il manicomio!) senza farsene condizionare, astraendosi.
ml
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