Nessuna vistosa autorità regale, 9

Dobbiamo sottrarci al contagio, non resta altra via.  Sottrarsi a ciò che ancora resta di vita normale.

Intorno a me si fa il vuoto. Gli sguardi altrui sono un cerchio di cemento grigio, Il grigio è dappertutto, tranne che nel viso da vecchia di Anastasia, lì c’è il blu delle occhiaie, il nero dei denti mancanti, ma non il perfido grigio. Continua a spiare le due spie là fuori. Quando la chiamo si volta con uno scatto fiero e vivace uguale a quello della foto di Anastasia bambina. Per questo scatto del capo io la amo, per gli occhi che sono due punte nonostante l’età e che fanno sembrare artificiali le rughe e le macchie della pelle. Per le rughe, le macchie, le vene blu io la odio, perché mi sembrano colpa sua, mi sembra che avrebbe potuto rifiutarle se avesse voluto e io allora avrei avuto l’unica donna che ho mai davvero desiderato.

Alla finestra, a spiare le spie, a un tratto la paura, come un artiglio sulla spalla. Mi volto e mi accorgo che anche Anastasia ha paura, la mia stessa paura, quella di essere avvelenati. Non stringo più mani, nemmeno al college. Non mangio fuori di casa, nemmeno ai rinfreschi durante i congressi. Invano i colleghi mi offrono tartine o drink, io vi vedo solo rischi di avvelenamenti.

Intorno a me si fa il vuoto. Il frigorifero diventa subito tossico solo a pensarci, tutti i cibi di casa grondano sostanze chimiche mortali. I due là fuori e tutto il sistema senza re e senza capitani che ha generato i due, non esiterebbero certo a ucciderci. Non in un lago di sangue, non in modo troppo clamoroso o troppo visibile, ma col veleno sì. Senza rumore questa povera vecchia, avanzo di un’Europa altrettanto vecchia, e il suo marito americano, americano per finta, saranno tolti dai piedi. E’ così che fanno, nulla di spettacolare, senza far parlare o sospettare, senza che intorno ai nemici vi sia una parola o un ricordo.

Lei non mangia più, nemmeno quello che le porto io

-Anastasia, vieni con me- La trascino in macchina, mi fermo, entro in un fast food e le prendo un hamburger con patatine. Lei nell’addentarlo ha la faccia di una bambina golosa e affamata. Mangia con voracità, senza alzare lo sguardo. Si pulisce l’angolo della bocca col dorso della mano, cercando di non farsi vedere

-Me ne prendi un altro?_

Sedotta dai grandi USA, finalmente. Conquistata a colpi di tritato di manzo. Non con le case linde, le famiglie perfette, ma con il cibo da cowboy. Anche lei, come tutti gli dei del mondo, come i grandi artisti e i perseguitati e le culture di tutto il mondo, è finita nel calderone americano, nell’ondata gigantesca che porta tutto tra New York e San Francisco. E’ la bambina che saliva sugli alberi, che mordeva la cugina, che si faceva rimproverare e punire dalle governanti. Boccacce e scherzi. E mac Donald’s me la fa ritrovare.

Da quel giorno mangiamo sempre così, e sempre in posto diverso. Chilometri e chilometri. La macchina è piena di cartacce e cestini di fast food. Prima di ritornare in un posto passa un mese. E i due ogni tanto li vedo nello specchietto retrovisore, sempre vestiti da spie, ma con un’aria appena di disappunto. Appena appena, ma già mostrare un qualche sentimento è un segno forte per gente come loro, allenata all’impassibilità. Sei un genio amico mio, hai fatto centro, mi dico da solo. Non sono mai stato così fiero di me stesso.

Dopo un anno i due fuori di casa diventano un’abitudine, e un’abitudine è la solitudine, e il televisore acceso, l’odore di terra. Così gli ebrei sono sopravvissuti ai campi di sterminio, così i nativi d’America alle riserve. Ma lei va giù, si spegne. L’odore di acqua di colonia non c’è più. Qualche volta mette i vestiti nuovi, ma la sua tristezza li annulla. Si lascia andare, non si lava più. L’erba del giardino copre quasi le finestre, i gatti aumentano.

Ho sentito la prima volta l’odore alla finestra, mentre spiavamo le spie. Io ero alle sue spalle. Era pungente e stantio –urine vecchie, stratificate, gocce su gocce nell’arco della giornata, ognuna col suo odore che si posa sugli altri. E mi sapeva di vecchi zii decrepiti nel prato, quando ero piccolo ed ero inorridito e incantato da quell’odore, da quella inconcepibile vecchiaia. Ma mi rifiutavo di pensare che venisse da lei, così pulita.

Una sera, mentre salivamo le scale, l’ho sentito nitidissimo, e veniva da lei. Anastasia non si lavava più, l’odore di gatto e  di orina vecchia era suo. In camera la faccio sedere sul letto. Lei ha occhi piccolissimi e neri, tra guance ancora sporgenti e piene, se guardo bene spostando le rughe e le macchie della pelle, certe volte è il viso della bambina di Tsarkoe Selo

-Ti preparo un bagno-

-Lasciami stare-

L’acqua scorre nella vasca copre i mormorii di protesta di lei, che infine si arrende perché forse le ricorda qualche capriccio antico, una cameriera che le preparava il bagno in qualche residenza fredda e vasta, perché sussurra incantata Annuska, Annuska.

E’ paralizzata. L’aiuto a spogliarsi e vorrei non vedere il suo corpo da vecchia che lei tenta di coprirsi con le mani nodose, i seni vizzi, la schiena curva come un punto interrogativo. Vorrei non sentire l’odore di urina che sale dall’inguine che guardo appena, bianco e violaceo, senza peli, in una specie di infanzia malata e maligna, appassito per la vecchiaia, però senza ombre, come un ritorno alla bambina di un tempo, la bambina violata e uccisa nella cantina di Ekaterinburg. (Il sangue, il sangue di genitori e fratelli, il sangue a fiotti e schizzi, e gli spari). Un ritorno falso e offensivo, un simulacro indecente. Lei tollera ogni giorno questa cosa su di sé e non so come faccia. Forse è così che ci si abitua alla morte, spiandosi ogni giorno addosso questa decadenza. E mentre distolgo il viso

-Marja, Marja stai giù!- sussurra spaventata.

L’infanzia, così tutelata dalla zarina, uccisa in pochi attimi nello scantinato, e poi dopo, quando il soldato l’ha presa nel bosco. Il mio gesto di denudarla l’ha portata a quella notte. Ancora Ekaterinburg e Marja che si alza e afferra la baionetta del carnefice accanto a lei. Da questo capisco che sa che le ho guardato il ventre.  So che d’ora in poi sarà così che mi parlerà, con i ricordi della sua vita prima di essere Anna Anderson, che non ci sarà più nulla di nuovo per lei, ma solo ripetizione, e che il dolore o la nostalgia saranno il suo linguaggio. La guido alla vasca e mi sento un carnefice. Pietà. Pietà per l’inguine vizzo e senza peli. Pietà perché è scomparso ciò che incantò Ciakoski e la salvò, ciò che tanti uomini videro e amarono negli americani della sua giovinezza. Per me questo è stato conservato, questa vecchia ho voluto.

2 pensieri riguardo “Nessuna vistosa autorità regale, 9

  1. quest’uomo, la cui vicenda mi colpisce forse più di quella di Anastasia, ondeggia tra il devoto alla nobile russa, il compassionevole verso la vecchia che vede davanti a sè, chiunque ella sia, e l’ambizioso (diventare ufficialmente principe consorte).
    ml

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