Nessuna vistosa autorità regale, 8

Anastasia sconvolta. In piedi accanto alla finestra guardava in strada da dietro la tenda. Più che guardare, puntava, come un cane da caccia. Non si è voltata quando sono entrato

-Principessa- Profumava di acqua di colonia. Quando io esco, lei passa ore in bagno. Pelle vecchia e acqua di colonia di un altro tempo, Guerlain Imperiale –sa di secco, sfinito e antico, come un libro del Cinquecento pieno di polveri e segreti.

-Principessa-

-Sssh. Sono qui-

-Chi?-

-Loro. I sovietici-

 Al di là del viale c’era un’automobile con due uomini seduti che guardavano davanti a sé. Apparentemente non avevano nulla da fare.

-Sono lì da ore. Sono loro-

La costrinsi a bere un té. Lei era impettita in punta di sedia. Come se dovesse andare via

-Sono loro, mi hanno trovata-

-Aspetta, non è sicuro. Vediamo cosa fanno- era una prudenza che non mi apparteneva, che esercitavo solo per lei. Dopo un’ora la macchina con i due era ancora là.

-Vado alla polizia-

-No. Resta-

Restammo seduti sul divano tra le patate, a fissare la televisione accesa

-Se sono spie, non fanno nulla per nascondersi-

-Non si nascondono perché non hanno paura. Anche gli americani vogliono che io sia controllata. Non faranno certo una guerra ai russi per me-

Per addormentarsi, quella sera mi ha chiesto di restare con lei. Ci ha messo un po’. Appena il suo respiro regolare ho piegato e messo a posto i cumuli di vestiti. Ammucchiava gli abiti, li lasciava cadere a terra, ma le lenzuola le cambiava e le lavava ogni tre giorni. Le sue pantofole erano vecchissime, la vestaglia era consunta ai gomiti, ma possedeva dieci boccette di acqua di colonia e faceva il bagno tutte le mattine.

Nel sonno geme. La consolo, la carezzo sulla mano ossuta, con troppe vene sporgenti e lei si placa. Per distrarla, la mattina dopo esco di buon ora a comprarle dei vestiti. I due (o altri due) sono sempre là nella macchina . Appena passo mettono in moto e mi seguono. I loro visi non li riconosco e so che presto non li ricorderò neppure. Sono anonimi, sfuggenti come acqua o sabbia. Visi che non si possono ricordare, capelli lisci, castani, lineamenti regolari, occhiali scuri sugli occhi. Non sembrano russi, però: sono morbidi come americani. Ma poco importa, tutti i servizi segreti e i loro uomini si somigliano, perché devono entrare dappertutto, vedere tutto, uomini nebbia, uomini fango. Io non mi curerò di voi! Dico allo specchietto retrovisore.

Per la prima volta decido di partire alla riscossa: finora ho come sognato, adesso basta.

-Troveremo altri avvocati, Anastasia. Costringeremo il tribunale tedesco a riconoscerti-

Lei sussulta spaventata

-No! E allora quelli fuori perché sono qui?-

quelli là fuori sono sempre fuori. C’è un mondo dentro e un mondo fuori e sono diventati incompatibili. E la verità è chiusa dentro. Non farti sulla soglia, non stare alla finestra.

Sì, alla fine la chiamavo Anastasia. Era più comodo chiamarla così, crederla così. Ma i dubbi restavano. Forse passati i cinquant’anni ci si adagia in finte certezze e non si vuole sapere più nulla. Come il metallo fuso dentro una forma prima o poi si raffredda e si adatta ai limiti della matrice.

Ci hanno spiato per un anno intero. Giorni interi alla finestra, dietro una tenda, insieme a lei. I due in macchina sono sempre là, certe volte si ripetono, certe volte cambiano, ma sono sempre uguali, uguali dentro, negli occhi, in ciò che fanno. Io e lei invece siamo unici, siamo tra i pochi che sento unici. Unico era Gleb. Unica Anastasia, e io per mezzo suo, due granduchi in attesa di diventare imperatori. Quando guardiamo insieme là fuori mi sento felice, in un modo strano.  Forse perché sino a prima di sposarla avevo fatto felici molte persone e mai me stesso. Ero stato come mi volevano e ora, a guardare indietro, stavo malissimo. Mie adesso le patate e il soggiorno oscurato, i due là fuori e questa donna vecchia accanto a me.

Le sorrido, e lei sembra uscire un po’ dal suo torpore. Anche se non mi restituisce il sorriso, quello proprio non sa farlo, c’è una luce nei suoi occhi. Mi stacco dalla finestra e studio il russo. Lei non mostra neppure di notare i miei libri. La Russia, Tsarkoje Selo, le sorelle, i genitori e la fine di tutto, se ci sono, sono sigillati in profondità, escono solo nel sonno, quando mormora e mormora sempre più spesso da quando ci sono le spie

Maman non riesco a fare questo punto.  Il ricamo, il francese, la musica e i giochi decisi dalla zarina. Le ragazze tenute in un’infanzia perenne, lontana dal male. Niente mondanità, niente balli. Il ricamo, fiori, alfabeti, gattini, mentre la Russia moriva. Un mondo magico nel palazzo, così magico e chiuso che non ricadeva all’esterno.

-Maman, come siete bella –

Il viso triste, sempre triste, delle vecchie foto della zarina Alessandra. Un viso che anche da ragazza in qualche modo sapeva cosa sarebbe accaduto, e non ha mai tentato di tornare indietro. Per amore di Nicola, o perché non conosceva altra strada. Era adulta anche da ragazza.

Due grandi assenti dalle invocazioni notturne, Rasputin e il bambino avuto da Ciakoski. Se Ciakoski esisteva, se hanno avuto un bambino

Troppo buio, maman. Accendete la luce. Troppo buio dopo la nascita di Alksiei. Non si sfida la felicità, non bisogna chiedere troppo. Con quali parole Rasputin avrà guarito il piccolo, con quali preghiere o incantesimi resta un segreto. O lo era già allora quando venivano pronunciate. Il bianco che gli zar avevano eretto con pazienza intorno alle figlie, che ancora durava intorno a mia moglie nonostante le patate e le tende tirate, non doveva, non poteva essere intaccato dal nero..

Le spie là fuori erano grigie. come i loro vestiti, come le canne delle loro pistole. Un grigio non di compromesso, di accordo tra parti opposte, ma di manipolazione, di bianco affascinato dal nero. Macchiato dal nero. Si notano appena, non si distinguono gli uni dagli altri. Nella loro assimilazione a chi li comanda peccano contro ciò che si deve fare per vivere Io e lei obbiamo sottrarci al contagio, non resta altra via.  Sottrarsi a ciò che ancora resta di vita normale.

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