
Chi era Gleb, mi chiedi. Bella domanda. Era il figlio del medico ucciso con gli zar a Ekaterinburg, ma anche il miglior professore del College, il fondatore di una nuova religione, un disegnatore eccellente e molto di più di tutte queste cose insieme. Era l’unica persona felice che ho conosciuto. Splendeva, letteralmente. In modo mite, come un fuoco basso. Dopo la morte del padre, la fuga avventurosa dall’Europa con la madre (avevano mangiato carne di lupo, in Siberia, e uno sciamano gli aveva predetto un attentato e il modo per sventarlo), nel nuovo continente la sua luce ha iniziato a splendere. E’ stato lui che mi ha fatto sposare.
Mi chiedeva, perché non scrivi più? Sto cercando di scrivere sulla regalità, rispondevo. Un giorno mi chiese: perché la regalità? Perché è ciò di cui abbiamo bisogno. Essere re è rinunciare a sè stessi, disse lui. Un sacrificio così necessario che lo si circonda di lussi e privilegi, per farlo digerire. Una rinuncia a sè stessi per la quale ci vuole un così lungo addestramento , da indurre gli antichi a renderlo ereditario, per cercare di sfruttare la genetica e la consuetudine. Lo sapevo che avresti detto questo, Janine, che è meglio essere re che prostituta. Il punto è che non c’è differenza tra le persone. O almeno non c’è differenza nelle sorti, nella quantità di dolore e gioia. La differenza di ricchezza è meno importante di quello che si pensa, anche se è ingiusta e piena di dolore. In pratica tutti la paghiamo. Un re è oppresso di colpa, ha un peso sulle spalle, e il lusso delle sue sale vale come compenso di questo torto.
Me l’ha spiegato Gleb. Non posso scrivere un articolo su questo, mi sbranerebbero, ha detto. Allora dimmi come faccio a conoscere la regalità, dato che non posso scriverne, gli ho detto. Si può vivere la regalità, ancora si può, mi ha detto. Ce ne è ancora un pezzo che vive nascosto in una casupola nella Foresta Nera. Io e altri l’abbiamo riconosciuta, ma non è servito a nulla. E’ Anastasia Romanova, figlia dell’ultimo zar. Quasi tutti i testimoni, pagati dalle banche inglesi o spaventati dai serviz segreti, le hanno negato ogni giustizia. D’altronde, hanno ragione: che succederebbe se si sapesse che è viva la figlia dello zar? Era la storia che sisussurrava al College da anni. Ah, la ricordi anche tu. E come mi riguarda? Ho insistito.
Bene, lui le ha scritto, l’ha fatta venire a New York,mi ha spinto a scriverle. E’ stato difficile. Ho gettato mille fogli appallottolati, con mille inizi. Poi ho capito che per riuscire dovevo pensarla una principessa. Quindi in preda alla disperazione scrissi di getto
“Altezza Reale,
forse nessun tribunale su questa terra Vi renderà mai giustizia. In pochi Vi conoscono. Ma sappiate che io erigerò un monumento sulla vostra tomba. Con devozione
Vostro John Manhan,professore di Storia presso Il…College di…Charloettesvlle, Virginia”
La risposta giunse dopo due settimane
“ Egregio e sconosciuto professore, invece di pensare alla signora Anderson da morta, fate qualcosa per lei viva. Non resterà viva ancora per molto. L’Europa è un pessimo posto per una donna anziana
Anastasia”
Gleb le ha pagatoil viaggio fino a New York. -Senti qualcosa di diverso adesso in America?- mi ha detto
-Sì. La vado a trovare-
-Buona fortuna. Le principesse, le vere principesse, sono esseri incantevoli e pericolosi a qualunque età-
Meglio essere re che poveracci? Insisti, certo. Come tutte le Marilyn. Tutti i modelli devono avere i loro miti. Però sei morbida, molto morbida.
Sai, quando sono andato a un cocktail con lei ho avutola certezza che fosse Anastasia. Lei non voleva venire, odiava mostrarsi. Ma era la prima volta da quando ci eravamo sposati e dovevo far vedere a tutti i colleghi che lei esisteva. L’ho costretta a indossare un vestitino nero, le perle finte, la borsetta, le ho detto che stava benissimo. Lei era arrabbiatissima, ma appena è arrivata ha alzato la testa, raddrizzato le spalle e ha iniziato a sorridere. Sorrideva a ognuno guardandolo un attimo appena, non più a lungo perché sarebbe stata indiscrezione, ma per quell’attimo l’altro si sentiva innalzato e rispondeva felice. Dentro, troppe persone. Visi tutti uguali, aperti in sorrisi da cocktail, sorrisi che poggiavano sull’ebbrezza di un bourbon. E con mio stupore chi tagliava e annullava tutti quei visi falsi era proprio mia moglie Anastasia (o Anna?) che avanzava con un sorriso non finto,l’unico della sala, con un sorriso che significava a ciascuno
-Sono davvero contenta di vedervi-
come ciascuno fosse per lei unico davvero, pur essendo visto per la prima volta. Una gioia speciale per ciascuno nello sguardo e nel sorriso, una gioia da regina. E io che avevo pensato che essere re fosse soffrire adesso ne dubitavo. Oppure la sofferenza di un re è in questa gioia non simulata, eppure obbligata in qualche modo?
Anastasia sorrideva, nelle presentazioni abbassava appena il capo. In fondo non contava che non fosse vestita di bianco, che non avesse perle vere e diademi, che fosse vecchia. La vera regalità era in questo sorriso lieto, in questo incedere lento e sicuro, in tutto quel che nessuno le può togliere.
E sì, ho sentito da quale lunga educazione, o feroce addestramento, nasceva quel far sentire gli altri unici e considerati, quel portamento che non la faceva cedere e sembrava però tanto naturale.
A casa, dopo, era stanca. Prostrata. Quell’attenzione agli altri le aveva tolto ogni forza. Mi ha fatto pena. Lei, Anastasia, anche se con quell’abitino, quelle perle coltivate.
affascinante.
ho l’impressione che tu abbia studiato a lungo i due protagonisti e al momento di scriverne tu abbia deciso che la voce doveva essere quella dell’uomo, ti sei immedesimata in lui, ne hai assimilato le stranezze, come sposare questa donna per una devozione assurda, iniziata prima di conoscerla, stranezze che lo rendono più originale della moglie, vera o falsa Anastasia che fosse. Sento nella tua/sua voce narrante una nota mesta, come se ogni istante dubitasse di aver sprecato la propria vita.
complimenti
ml
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Ho studiato a lungo, è vero, per come potevo e sapevo, anche se non credo di aver esaurito l’argomento. La storia è terribilmente triste e stavo male anch’io a scriverla. Grazie della visita e del commento.
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