Ragazzini

Ragazzini poveri di periferia, che vorrei fossero ricordati da qualcun altro oltre me, poiché la vita già al principio gli ha già tolto tanto.

Uno di un paio di decenni fa, un alunno di mia madre quando mia madre insegnava in quartiere terribile. Aveva sei sorelle più grandi e andava a scuola con i loro vestiti smessi, perché a casa erano poverissimi, e i compagni lo prendevano in giro -camicette a fiori o con le ruches, cose del genere. Mia madre di nascosto gli portò qualche maglietta e felpe dei miei fratelli e il giorno dopo lui a scuola aveva finalmente gli abiti giusti e si pavoneggiava a torace gonfio, un vero leoncino, davanti ai compagni ammutoliti. Iniziò pure a studiare un po’.

Un altro visto una mattina su un furgoncino aperto, di quelli che usa chi fruga nella spazzatura. Era seduto su un mucchio di ferraglia e teneva alto davanti a sé, come un trofeo, un vecchio veliero della Playmobil, di certo trovato in cassonetto. Lo scafo era scolorito e ammaccato, ma lui non lo vedeva, il suo visetto era estasiato.

E infine quello che ricordo con più tristezza, un alunno di quando, per un anno, ho insegnato in una scuola di periferia. Una scuola carina, in un quartiere abbastanza tranquillo anche se povero. A novembre i carabinieri portano  un diciassettenne che non aveva terminato l’obbligo scolastico e ovviamente finisce nella mia prima. Diciassette anni di chissà che vita in mezzo ad agnellini di tredici. Era diventato la star della classe, disturbava continuamente, di studiare nemmeno a parlarne, niente libri, quaderni, penne; godeva inoltre di una salute di ferro, mai un raffreddore, un’influenzetta che lo tenesse a riguardo un paio di giorni, tanto per far prendere fiato a me a ai colleghi.

Poi una mattina chiedo al suo compagno di banco di leggere un passo del testo. Il diciassettenne sbianca in viso, si fa piccolo piccolo e sta buono per tutta l’ora. Quando la lezione finisce, si alza dal banco, mi gira intorno, poi mi tira la manica e con una vocina pietosa sussurra –A mia non mi chiedesse mai di leggiri. Nun saccio leggiri, m’affruntu- (trad. Non mi chieda mai di leggere, non lo so fare e mi vergogno). E in attimo ho visto quanta, quanta gente doveva essersi disinteressata di lui, per anni e anni; e cosa lo aspettava; l’ho preso da parte, i compagni sullo sfondo con gli occhietti curiosi -Tu devi imparare a leggere, devi, hai capito? da oggi. Aspetterò che tu impari- Risoluta a promuoverlo. Tre giorni dopo è sparito e non lo abbiamo visto più.

E ogni tanto mi chiedo se mai saprò qualcosa di questi ragazzini, che fine abbiano fatto, quali stradoni di periferia li abbiano inghiottiti, o se la vita in qualche misterioso modo sia stata poi pietosa con loro.

 

13 pensieri riguardo “Ragazzini

  1. Premessa: ho insegnato per un anno soltanto. Mi è capitato a 49 anni di diventare docente di ruolo senza aver fatto un giorno di supplenza. E’ stata un’esperienza difficilissima e ho capito che non ero all’altezza del compito, quindi ho lasciato il posto ad altri, magari più adatti e preparati di me. Una delle cose che non dimenticherò mai è la frustrazione di non essere in grado di aiutare quei ragazzini (insegnavo alle medie) che avevano ogni sorta di difficoltà: familiari, psicologiche, sociali. Ne ricordo una in particolare, orfana di madre e abbandonata dal padre, viveva in casa famiglia e sembrava odiare tutto il mondo. La mia materia, l’inglese, non la prendeva nemmeno in considerazione. Diceva che era inutile, che non ce l’avrebbe mai fatta ad imparare. Ho fatto del mio meglio per convincerla che non era vero, ma ho fallito, come peraltro altri miei colleghi ben più esperti di me. Mi chiedo anch’io, a 5 anni di distanza, cosa ne sia stato di lei.

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  2. “E ogni tanto mi chiedo se mai saprò qualcosa di questi ragazzini, che fine abbiano fatto, quali stradoni di periferia li abbiano inghiottiti, o se la vita in qualche misterioso modo sia stata poi pietosa con loro.” Questa tua ultima frase mi fa sorridere e rabbrividire. Io sono nato e cresciuto in un quatiere povero, con una scuola povera dove si facevano i doppi turni, i grembiuli erano neri con un colletto bianco, un fiocco colorato, e un gagliardetto tricolore al petto diverso per ogni grado di classe (l’amido una caratteristica distintiva). Solo che non si sapeva di essere poveri, si era semplicemente e felicemente bambini (30/35 per classe e una sola maestra). Al mattino c’era la distribuzione di un bicchiere di latte e zucchero perchè non tutti avevano fatto colazione, col senno di poi deduco che a digiuno ci fosse meno attenzione alle lezioni.
    Non si era tutti poveri allo stesso modo naturalmente, allora nei quartieri popolari tutti avevano un lavoro o facevano qualcosa che gli somigliava, si era un insieme socialmente eterogeneo. L’ascensore sociale funzionaza abbastanza bene e la catena dell’ignoranza poteva essere sciolta con l’acido scolastico. In ogni caso la pietà della vita non penso proprio sai una necessità di chi parte da zero, la vita (megli la società) deve solo offrire opportunità dignitose per non essere inghiottiti dagli stradoni di periferia.

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    1. Paolo hai scritto una grande veritù ch i ragazzini un tempo non sapevano die ssere poveri. Ora ci pensano tutti a informarli, a iniziare dalla televisione. Ed è bellissima l’idea di una distribuzione collettiv di una tazza di latte, oggi nemmeno questo c’è.E credo anche i certi quarteri fossero meno ghetto rispetto ad oggi.
      Verissimo il discorso dell’ascensore sociale. Mio padre era poverissimo e intelligentissimo. Era così povero che studiava dopo cena, quando i compagni gli prestavano i libri, eppure aveva la media dle nove. Così ebbe le borse di stufio ogni anno e potè andare avanti, fino alla laurea. Erano gli anni della guerra e subito dopo. Noi ai quartieri poveri abbiamo tolto anche questo, oltre alla tazza di latte.
      Quando scrivevo che spero nella pietà della vita mi riferivo a una mia particolare fede, che nelle esistenze di tutti noi ci sia una specie di bilancia, e che in qualche modo, dolori e gioie siano bilanciati. Ma è solo una cosa irrazionale.Grazie del commento.

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  3. Non hai probabilmente niente di quello che fa una persona un guru della sociologia, un Terminator dell’opinione et similia ma quando ti si accende la luce dentro… Picciotti un ci né pi nuddu.
    Pochi tratti e hai disegnato una vita, un contesto, la gente dentro l’aula e tu.

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