Il pranzo dei morti, 14

-Principe., amico mio, vi sembra il caso, proprio ora che stiamo per essere giudicati e ammessi al Suo cospetto…-il d’Ingalbes si alzò a prendergli la mano.

Ripasaltas iniziò la sua opera consueta di mediazione

-Eccessivo, credo, il pensare a un tribunale, ma certo, ehm, capisco, capiamo…le donne, nevvero? Una delusione perenne, non ve n’è una che regga all’idea che ce ne siam fatta…e tutte le lenzuola spiegazzate, oh quante!, spiegazzate invano…e purtuttavia, vedete, principe…-

-No!-il marchese di Carabas quasi gridò, sussultando come per un singhiozzo- No!-

tutti tacquero stupiti

-No!- per la terza volta. Il marchese fissava come incantato il calice pieno del vino color rubino di Giarratana, feudo portato in dote graditissima da sua moglie –C’è qualcosa che dura, e lo dimostra questo pesce: io vi sento cura e attenzione, e dolcezza, come una mano materna sul capo. Qualcuno si prende cura di noi e provvede, anche qui su questa bella terra e questa è immagine della Divina Provvidenza che ci attende!-

-Che intendete?-

– Chi ha cucinato questo pesce, chi l’ha voluto su questa tavola, chi ricordava la ricetta di un’epoca antica, l’avete detto tutti voi, terribilmente antica, voleva che riscoprissimo la dolcezza della vita su questa terra a dispetto di tutte le illusioni e le delusioni che il principe qui presente troppo patisce, invece di sorriderne, come sarebbe giusto! Dico- e si alzò col calice in mano- Qualcosa dura, sotterraneo, misconosciuto, ma dura e non so cos’è. Brindiamo ad esso!-

tutti si alzarono perplessi, tranne il principe Lancia.

-Sbagliate, amico mio, sbagliate, ma fate come volete. Brindo a ciò che dura, e che sempre ritorna come questo sole che rugge nei piatti sotto questo commovente pesce cavaliere-

Svuotò d’un fiato il calice e crollò seduto a testa bassa, quasi che quei brevi discorsetti fatti l’avessero svuotato d’ogni energia. E questo accade quando si dicono le grandi verità, ma lui non poteva saperlo, avendo vissuto sino ad allora nella menzogna.

– Una sola cosa –sibilò il principe fissando il marchese –una sola cosa è durata nella vostra vita e non per merito vostro, né delle vostre ricchezze: vostra moglie donna Cubitosa che vi ama, nessuno sa perché. Ma tanto a voi non importa e di lei non vi siete mai accorto, e neppure… – si fermò appena in tempo.

Il marchese non lo ascoltava, o lo ascoltava con una minima parte di sé stesso, perché stava scostando la salsa del pesce con la forchetta, e scostava, scostava come se cercasse qualcosa. Poi bevve un altro calice di vino e crollò con la testa nel piatto. Come morto.In un lampo dieci persone, tra convitati e maggiordomi soccorsero il marchese con sali, cordiale e pezze fredde; in batter d’occhio lo trasportarono nel suo letto e mandarono a chiamare donna Cubitosa.

Di nuovo sola, si disse lei inspirando forte l’aria con la mano sulla maniglia della stanza del marito. Di nuovo sola con lui. Lo sentì respirare appena entrata. Prima, molto prima di essere vicino al letto. Piano, ma respirava, ed era come un macigno tolto dal cuore. Si coprì di sudore in tutto il corpo e di lacrime nuove sul viso.

Marchesa, marchesa, marchesa.

-Gerlando mi occupo io da sola del marchese. Voi provvedete con Totò che i nostri ospiti tornino intavola per il dessert. Badate al vino dolce. E voi, signori- e alzò gli occhi sui tre gentiluomini, che vi caddero dentro –voi che mi avete validamente aiutato in questa folle impresa, avrete sempre un posto nel mio cuore, per quel vale. Sono certa che tutto andrà per il meglio. Non temete per il vostro amico. Egli guarirà e sarà anche per merito vostro-

Il principe Lancia si chinò profondamente, e profondamente commosso. Noblesse oblige, pensò, eccellente davvero, marchesa. Ma non lo disse e si limitò a baciarle la mano con trasporto.

E così i tre amici se ne andarono, turbati non solo per la sorte del marchese, ma anche per ciò che ognuno aveva appreso degli altri. Si sentivano come denudati e camminavano a capo chino verso la carrozza del principe che li avrebbe accompagnati a casa. In silenzio salirono, in silenzio la vettura si mosse senza scosse, lasciandosi alle spalle il mare nero con i suoi misteri, i suoi cavalieri, i suoi odori grevi che salivano alle sale del marchese,. Si spalancò la notte nera di Palermo, rotta appena qua e là dai doppieri dei valletti davanti ai palazzi nobili. Le lanterne scavavano i volti dei gentiluomini senza più parole, facendoli scheletri.

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