-Un brindisi, carissimo e vi dirò oltre-
Non per sempre, solo come purgazione, una fase di distacco lento dal mondo al quale tanti legami avvingono il morto che già agogna alla beata condizione celeste. E come sancire il distacco definitivo e l’entrata del mondo celeste? Come se non con un banchetto che riunisca le persone più vicine al morto che siano anch’esse nell’Aldilà? Un brindisi, un pranzo; il fior fiore della compagnia, i cari amici che ci furono di scorta nella vita terrena e il fior fiore di questa terra benedetta che è la Sicilia; il massimo fasto della carnalità e della materia nel momento dell’addio; come l’ultima notte con una donna amata, o come …e qui un piccolo calcio del d’Ingalbes interruppe il discorso del principe, che già stava commuovendosi sulle bellezze del mondo materiale, tanto da farlo vagheggiare a chiunque, mentre il convegno presente tutto richiedeva meno che di sottolineare la carnalità che il marchese sembrava negare fieramente. Forse, ragionava il d’Ingalbes, troppo di sé le aveva tributato finora, e troppo poco ne aveva tratto. Come lui medesimo, d’altronde, che se si ritrovava povero era per aver troppo amato il mondo e aver sperato che gli desse prima o poi quelle gioie che sempre annunciava.
In quella si aprirono i battenti e Gerlando in livrea d’onore, blu oltremare con i galloni e i bottoni d’oro, s’inchinò e annunciò
-Lor signori sono invitati a prendere posto. Inizia il pranzo che il Monsù di questa nobile dimora ha allestito in onore del Marchese di Carabas-
Sedettero ai quattro lati dell’enorme tavolo. Nei piatti i soli avevano una faccia dipinta dentro il cerchio e i raggi come tentacoli; sembravano cantare e ridere alle foglie nel bordo. E su quei soli il maggiordomo depose arancine tonde e dorate che imitavano i soli e cantavano sotto i denti al primo morso, spalancando sotto la crosta croccante il riso caldo giallo di zafferano e spezie, profumato della carne nascosta nel cuore che si annunciava e non si mostrava subito. E si proseguiva a mordere per raggiungerla, tenerissima, tagliata a piccoli cubi legati ai piselli.
-Marchese, non assaggiate?- chiese sorridendo il principe Lancia –Questo arancino è immagine vivissima di quanto abbiamo appena passato: la scorza fritta che crocchia sotto i denti è la durezza della morte, che esiste solo per schiudere il cuore saporitissimo della vita spirituale. Assaggiate, è un ordine-
-Non posso, non ho più lo stomaco- il marchese era grigio in volto-
-Neppure noi, amico mio, abbiamo più lo stomaco!- il Rioasaltas alzò davanti al volto un arancino –eppure vedete? La morte ruvida, dura, brutta è la crosta; un attimo e si rivela l’interno magnifico, ricco e profumato: la vita presente dopo la morte, tutti insieme- e addentò la crosta dell’arancino con uno sguardo estasiato da innamorato.
– Davvero amico mio eravate destinato alla corte del re, con la vostra eloquenza- sorrise il marchese. Ma era un sorriso difficile, perché da tanto non sorrideva che aveva perso l’esercizio.
I tre invitati fingendo di conversare lo spiarono dischiudere la bocca e dare il primo morso. Un morso piccolo piccolo, che tuttavia produsse un suono che sembrò un inno di vittoria cantato a squarciagola.
Totò versò il vino nascondendo la sua gioia e il Ripasaltas lo guardò con desiderio struggente, quindi alzò il calice
-A noi, amici miei! A noi che siamo sempre insieme! A questa bella vita nuova!-
-A noi!- e tutti bevvero.
-Coraggio amico mio, non potete non unirvi al brindisi!-
il marchese con mano tremante alzò il calice e lo posò subito
-Non posso…- mormorò
– Pensate al sangue di Nostro Signore che ci garantì questa vita dopo la morte- gli sussurrò il Ripasaltas –tutto questo che ci è imbandito è santificato e trasmutato. Sembra vino e non lo è, è solo immagine del vino terreno. Unitevi a noi, presto-
Gli altri ascoltarono trepidanti e trepidanti lo videro bere il vino rosso come un rubino, profumato come un fiore. E videro il viso dell’amico prendere una sfumatura più rosta come se il vino bevuto avesse passato alle guance il suo colore
E anche donna Cubitosa, nascosta insieme a Gerlando dietro l’uscio, vide la tinta rosata salire al viso del marito e battè le manine grasse senza far rumore: La vita ritornava, debole e delicata, ma tornava! Potenza del vino di Giarratana, color rubino e profumato di mare e sassi scaldati dal sole! Sangue e vino; il vino che faceva sangue, vivo, ruscellante nelle vene, sangue buono a vivere, a cantare, a mordere, a cadere insieme nel letto.
Guardò Gerlando: il maggiordomo aveva gli occhi pieni di lacrime. Guardò la sala dischiudendo appena il battente: vide il Ripasaltas sfiorare con la mano la natica di Totò mentre gli chiedeva altro vino. E sia! Pensò. Che importanza ha tutto, in fondo? Dalla tappezzeria di seta gli uccellini cinguettavano, i fiori sbocciavano. E sorrise.
I tre gentiluomini con gioia repressa e di sottecchi guardarono il marchese mangiare l’arancino. Aveva iniziato a sbocconcellarlo; ma quando era giunto al ripieno, alla fusione di ragù, carne e spezie, i morsi si erano fatti più veloci, e quasi non masticava più, assorbendolo come una piantina riarsa l’acqua. Quando ebbe finito gli altri tirarono il fiato di nascosto. Totò iniziò a servire il timballo di pasta
.Straordinario questo cibo dell’aldilà, davvero il compendio di quanto di meglio offra la terra…-sussurrò il marchese- sembra difficile che ne avremo di altrettanto buono e spirituale-
-Lasciate fare al nostro Buon Signore- replicò il d’Ingalbes –non c’è limite al suo amore-