Il monsù aveva dovuto chiedere la ricetta del pesce spada a una vecchia megera nel quartiere della Calispera dietro il porto, con l’unica scorta d’uno sguattero e sotto il giuramento del silenzio; una certa donna Metra (oh, con quale reverenza questo nome aveva pronunciato la marchesa!). Ah, aveva sospirato il monsù, terra di selvaggi, di gente dal sangue troppo forte, che quando volevano una cosa, non mollavano fino a che non l’avevano ottenuta! Gente alla quale il sangue correva così forte nelle vene da ottundere ogni raziocinio, ogni ragionamento sensato. Pazzi, pazzi e incivili! Fargli lasciare la cucina mentre tutto ferveva e aveva bisogno di lui! Meno male che ciò che volevano erano sciocchezze e non terre o ricchezze, altrimenti chi li avrebbe fermati i siciliani? Sì sciocchezze, amore per lo più, ma anche onore e decoro, e rispetto dei legami di sangue, tutte cose che lui non ammetteva.
Donna Metra gli aveva dato la ricetta. Stecca il pesce con chiodi di garofano, che purificano dalla morte. Marina con succo d’arancia che addolcisce la vita. Soffriggi la cipolla che invita e cuoci nel soffritto il pesce.Poco prima di toglierlo dal fuoco, aggiungi un cucchiaio di miele, che conserva e preserva, noce moscata che parla di favole lontane e invita al viaggio e pepe che scuote.
Quando aveva chiesto in quali proporzioni usare gli ingredienti la risposta era stata:
-Non c’è legge in queste cose, se non quella che il cuore comanda. Ma il cuore, ricorda, deve essere puro e pura l’intenzione. Il cibo non deve essere solo buono e non deve essere solo medicina, ma entrambe le cose. E’ dono divino, arte, magia, e miracolo, tutto insieme. Il tuo cuore è puro, come quello di chi ti manda, e riuscirai.
E il tuo marchese guarirà di ogni malvagio sortilegio. Visto che donna Cubitosa ci tiene tanto a quello straccetto di marito-
E ora, ora che l’ora fatale era giunta, donna Cubitosa quasi singhiozzava alla finestra, sentendo vicina la prova: avrebbe avuto buon esito la serata frutto del suo ingegno e della sua fantasia? Le avrebbe restituito il marito? Oppure, come vedeva bene soltanto adesso, l’indomani tutta Palermo sarebbe stata piena della nuova che il marchese di Carabas era matto e matto sarebbe restato per sempre? il grido dei portieri, il rumore d’una carrozza e il tramestio dei torcieri la strapparono alle sue angosce. Si asciugò gli occhi con la manica e si avviò incontro ai suoi ospiti.
Il principe Lancia, il conte d’Ingalbes e il barone di Ripasaltas erano nella sala rosa di palazzo Carabas. Illuminata a giorno, sembrava una nave in fiamme lanciata contro l’oscurità che montava dalle finestre sul porto. Nelle ciotole di porcellana si ergevano piccole colline di confetti rosa, nelle bottiglie di cristallo rosolio alla rosa. Tutto era rosa e festoso come sempre, ma si avvertiva una gravità nuova nell’aria, che prima non c’era.
A piccoli passi affrettati, preceduta da un impassibile Gerlando, la marchesa entrò e strappò un sorrisetto al principe Lancia, che in città era noto per la malignità nei giudizi. Senza busto, in abito da casa, a testa bassa: che marchesa era?
-Perdonate la libertà con la quale vi accolgo- disse sedendo al centro fra i tre –ma, confidando nella vostra discrezione e nell’affetto che nutrite per mio marito, devo avvisarvi che egli si trova in una condizione particolare. –
-E’ malato!- esclamò il conte d’Ingalbes, vagamente spaventato dal possibile contagio: come avrebbe pagato il medico? donna Cubitosa scosse il capo
-Non proprio, non in modo tradizionale. Egli sta benissimo, ma, vedete…è difficile dirlo…crede di essere morto-
i tre ospiti sobbalzarono come un sol uomo
-Sì, purtroppo è così. Sta benissimo, ma si crede morto. Dice di non aver più cuore e stomaco. Eppure per il resto, ragiona benissimo e riconosce tutti. Solo, non vuole vivere, perché si crede morto-
-Devo vederlo!- il principe Lancia balzò in piedi
-Aspettate principe! Devo prima spiegarvi il motivo per cui siete qui. Dovete fare in modo che egli mangi. Sta benissimo, ma non mangia e diventa sempre più debole. Io quindi vi ho invitato affinché, distratto dalla vostra compagnia, pranzi come si deve, come una volta. E perché ciò accada, voi tutti dovrete fingere di essere morti-
I nobiluomini la fissarono allibiti. Il conte d’Ingalbes fece un gesto di scongiuro e scosse il capo.
-Aspettate, aspettate prima di rifiutare! Il marchese non vuole cure, né prediche, né di sentirsi dire che non è vero quanto lui crede di sé: se vogliamo che mangi e che dunque si salvi, deve avere intorno suoi pari, suoi simili. Non impariamo tutti dai simili, dai buoni compagni di vita, di strada? Da soli cosa impareremmo mai? Egli dunque, deve imparare di nuovo a mangiare, il che significa poi imparare a vivere. Se lo amate come avete dimostrato sinora, continuate a farlo nella cattiva sorte. Fingetevi morti, usate la vostra fantasia e rallegratelo: il cibo verrà da sé e mangiando, tornerà alla vita solita. Perché il cibo è vita, non altro. Vi prego quindi di immaginare davanti un’aldilà che egli possa condividere, se potete, e di rallegrarlo della nuova condizione-
I tre si guardarono muti, poi il principe Lancia mormorò, come a sé stesso
-Sarebbe anche divertente. Ognuno fingererebbe una sua propria condizione ultraterrena, quella che la sua vita gli ha preparato, giacchè ognuno di noi sa cosa ci stiamo preparando per quando saremo dall’altra parte, non è vero? E nessuno di noi pensa di andare dritto in Paradiso, come se fosse stato un santo, non è forse vero? Già il Purgatorio sarebbe tanto, per gente come noi! Forse ci varrà anche come confessione, davanti al Buon Dio, con buona pace dei preti che ci circondano, sempre più inutili! –
il barone di Ripasaltas scosse il capo
-sarebbe facile cadere in contraddizioni di ogni genere che il marchese non mancherebbe di rilevare. Dovremmo concordare bene…-
-Io adesso vi lascio- disse la marchesa alzandosi –decidete liberamente, secondo coscienza. Fra un quarto d’ora manderò Totò e a lui comunicherete la vostra decisione. Qualora decideste di stare al gioco e di fingervi morti, dirò al marchese che siete morti in naufragio, mentre vi recavate a Napoli, a presentarvi al nostro buon, nuovo Re. Buona serata, signori, e grazie, qualunque cosa scegliate di fare-
E negli occhi di lei brillò come una sala sfolgorante di luci, luci di dolore e lacrime, ma anche di pietà per quei tre signori ai quali tanto di ovvio era stato necessario spiegare, la grammatica dell’amore persino; e anche luce di condiscendenza, di abbassamento e tristezza per l’essersi abbassata tanto. Ma nessuno di loro pensò questo, o volle pensarlo nella sua interezza; solo si accorsero che la marchesa aveva occhi bellissimi, fra ciglia lunghissime, nei quali si poteva cadere e volare; e pure pensarono che era giovane, giovanissima. La videro andar via, un poco traballante sui tacchetti di seta, con un sentimento nuovo di ammirazione.
Scese il silenzio nella sala rosa e dorata. Nessuno parlava, né guardava gli altri, bensì un punto nel pavimento di ceramica che sembrava a ciascuno particolarmente interessante. Infine il principe sospirò, quindi sorrise
-Curioso che sia capitato proprio a lui, nevvero? A chi più di ogni altro nella nostra bella compagnia ci sospingeva verso le avventure, i lidi ignoti, la bella Parigi. Come se avesse esaurito tutto e ora niente lo tenga fra noi-
-Forse noi tre abbiamo ancora motivi per lottare, egli ha sempre avuto tutto- il conte d’Ingalbes mesto pensava a sé e alle privazioni nascoste cui si sottoponeva ogni giorno, peggiori d’ogni battaglia per gente come loro.
-Curioso, sì. Ma è sempre stato il più malinconico di noi. La vita non era mai abbastanza per lui. Dunque la lascia, come si lascia un’amante che ci ha tradito- mormorò il barone di Ripasaltas, che poi si riscosse con fierezza, pensando che doveva allenarsi a sconfiggere le ostilità, che fossero a Palermo o Napoli, nelle vesti di un amico malato di ente o di intrighi di corte –Ma non lo permetteremo!-
-No!- concordarono gli altri
-La follia non ci toglierà l’amico!-
-No!-
balzarono in piedi unendo i bicchierini di rosolio, quindi il principe Lancia scrutò il viso degli altri due
-La sua stanchezza è anche la nostra. Il suo tedio è anche il nostro. Ma non ci siamo ammalati perché avevamo altre cose da desiderare davanti a noi, come l’isola agognata davanti alla prua di una nave. Questo dobbiamo ricostituire in lui stasera, la direzione verso una meta. Prima mostreremo di essere come lui, vale a dire morti, poi lo indurremo a mangiare e, quando avrà mangiato legandosi di nuovo alla linfa della vita, instilleremo nel suo cuore il desiderio di qualcosa. E avremo vinto-
-Che diremo dell’esistenza da morti, che grazie al Buon Dio ancora ci è ignota?- il d’Ingalbes non era molto convinto e il Ripasaltas, che in pochi istanti aveva concepito un piano, gli pose una mano sulla spalla dicendo
– Stabiliamo di essere morti nel naufragio d’una nave per Napoli. Stabiliamo di essere tutti al Purgatorio, grazie alla divina bontà che ci ha evitato l’Inferno. Il Paradiso non sarebbe credibile per gente come noi e l’Inferno ci toglierebbe la possibilità di parlare serenamente. Dunque Purgatorio. E dobbiamo mantenerci la possibilità di immaginare un Purgatorio personale a ognuno di noi. Dobbiamo avere un margine di libertà, altrimenti sarebbe facile per noi cadere in contraddizione. Ora possiamo fare che nel Purgatorio ciascuno di noi abbia una punizione diversa, isolato dagli altri?-
il conte d’Ingalbes tremava di sdegno
-No no no no! Nessun contatto fra cibo e Aldilà! Nessun legame possibile! Aiutiamolo sì, ma senza pranzo. Torneremo domani mattina-
L’esclamazione cadde e provocò un silenzio profondissimo, nel quale si udirono solo i richiami lontani dei marinai dal porto e sembrarono come un grido di guerra. Tutti riconoscevano in cuor loro la verità di quelle parole; e tuttavia qualcosa non andava…Forse fu per il piacere del bel gesto, di fare bella figura; oppure colse l’eccessiva logica di quelle parole; ma il Ripasaltas dopo qualche istante mormorò pensieroso
-Non so, siete nel giusto amico mio, certo, ma..ma non è come dite! O meglio, è come dite secondo ragione, non secondo verità, perché sapete che verità e ragione non sempre coincidono. Se seguite il cuore, il cuore di cui nessuno più oggi parla, vederete che non possiamo andarcene così questa sera. Avrebbe il sapore dell’assassinio- e tacque soddisfatto. Aveva posto il dubbio senza prendere posizione; lasciare aperte tutte le strade, questa era la politica. A corte, si disse, non avrebbe certo sfigurato.
Di nuovo il silenzio e nel silenzio marinai e onde brevi che comandavano Partite! Partite, presto!
Il principe Lancia lo guardò ammirato e lo seguì nel ragionamento
-Ricordo certe storie dei precettori e delle balie, su Persefone che mangiò tre chicchi di melograno nel regno di Ade e per questo fu legata per sempre al regno dei morti e non potè tornare da sua madre Demetra. A nicaredda! strillava la mia vecchia balia, troppa siti avvi! Dunque si mangia nel regno dei morti.
Il nostro pranzo di stasera potrebbe essere l’ultimo insieme per prendere congedo dalla terra e passare dall’altro lato. In fondo nella storia che diremo siamo morti insieme, come abbiamo vissuto insieme. Un ultimo pranzo per salutarci prima di avviarci alla punizione individuale. Gli arancini del monsù possono ben passare come gradino da ascendere per avviarci all’aldilà, dove gusteremo il cibo spirituale che trascende il cibo di questa terra.
E la punizione di ciascuno sarà quel che a ognuno verrà in mente. I nostri peccati sono così diversi, signori- e qui una luce brillò negli occhi del principe di Lancia, che ben conosceva i gusti del Ripasaltas per i bei ragazzi- sono così diversi, che non sarà difficile immaginare e favellare di condizioni del tutto personali. Voi, caro conte- e si rivolse al d’Ingalbes con un sorriso –cercate di vedere in altro modo la faccenda. Non sarà un’offesa al cibo, ma la sua esaltazione. Conosciamo bene l’abilità del monsù di questa dimora. I suoi arancini restituiscono l’immagine dell’Eden, glorificano la bellezza originaria della terra prima del peccato originale. Stasera sarà il cibo prima della caduta per essere ammessi alla vita eterna.
Tentiamo signori; glielo dobbiamo e lo dobbiamo a questa povera donna che in fondo ama suo marito e lo sta scoprendo soltanto adesso. E, mi raccomando, iniziamo dal vino!-
Quando Totò entrò nella sala, a piccoli passi discreti, trovò i tre gentiluomini con gli occhi brillanti e divertiti
-Favorite di annunciarci al marchese- intimò il barone di Ripasaltas e le sue parole suonarono come una dichiarazione di guerra alla follia e a ciò che rende brutta la vita.