Donna Cubitosa entrò in cucina .Là le sembrava di stare nella radice delle cose. Per arrivare in cucina bisognava scendere di mezzo piano le scale di servizio dell’ala est e si arrivava subito in un enorme sala seminterrata, che aveva quattro finestrone poste in alto, come pentoloni che rovesciassero non minestre, ma fiumi di luce, non sufficienti tuttavia a fugare l’oscurità dagli angoli. Un enorme camino a destra dell’ingresso, i fornelli a sinistra e poi tavoli, tavolini, stipi, appendini pieni di mestoli e casseruole e da una cosa all’altra un continuo via vai di persone che nell’enorme ambiente sembravano stranamente minuscole, sguatteri, cuochi, pasticcieri, e, circondato da un nugolo di sotto cuochi, il monsù che costava la rendita del feudo di Geraci e che era ritenuto il migliore della Sicilia occidentale.
La marchesa lasciò entrare in sé la strana pace di un luogo tanto pieno di attività. Si stava bene là sotto. Era un grosso ventre confortevole che partoriva ogni giorno la vita della dimora, pensò la marchesa, quello da cui suo marito aveva reciso ogni legame. Lo ristabilirò, si disse lei, masticando un tozzo di pane, lo aggancerò di nuovo alla vita. Il Monsù le fece la reverenza
-Comandate marchesa-
-Quali sono le pietanze preferite dal marchese? Ordino che le prepariate tutte per il pranzo di sabato prossimo-.
Arancine, maialino allo spiedo, caponata, pesce spada, sorbetto di gelsomino e sorbetto di limone, babà alla crema con trionfo di frutta, quindi confetteria di ogni tipo, l’elenco era un cantilena magica che già radicava alla vita la marchesa, ancora di più. Arancine dorate col cuore di ragù che si scioglieva in bocca al primo morso come un regalo, il mare di caponata scura distesa nei vassoi , che parlava di strane fusioni e terre lontane rese vicine dalla curiosità e dall’intelligenza, e poi i colori chiari dei sorbetti fatti con la neve dell’Etna che dal cuore dell’inverno parlavano d’estate e rallegravano…questo amava il marchese? Lei non se ne era mai accorta e questo le diede una stretta al cuore perché il monsù non aveva esitato nel fare la lista: anche i sottoposti conoscevano il marchese meglio di lei. I gusti di lui erano una realtà ben nota a tutti nella dimora e ignorata solo dalla moglie, e questo era peggio che ignorare che un marito abbia un’amante, mentre tutta la città lo sa. Anche per questo forse lui si lasciava morire, per l’indifferenza di lei?
Ma non c’era modo di rattristarsi troppo: davvero quel banchetto poteva chiamare alla vita e far sentire forte la ricchezza infinita del mondo a cui il marchese stava rinunciando. Di nuovo il monsù, Marchesa però sarà molto, troppo difficile trovare pesce spada freschissimo qui a Palermo..lo pescano solo nello Stretto. La nostra feluca lo farà arrivare qui in un battibaleno, volerà sino a Messina. Come dev’essere cucinato? E’ il re di ogni banchetto, a lui deve essere accordato il posto centrale e celebrato degnamente con la giusta ricetta…Vedete voi, amico mio, a voi e alla vostra sapienza mi rimetto interamente.
-Madame, sarà il pranzo dell’anno. Sarà meraviglioso-
Una nuova felicità arrivava come una lenta ondata e in questa Cubitosa vedeva gli ingredienti dei cibi salire dal suolo, a uno a uno, e con piccoli fini o tentacoli entrare negli uomini e spingerli verso l’alto, verso il cielo –una profonda unità tra il basso e l’alto, tra il cibo e l’anima che era sacrilego negare. Solo un malvagio poteva restare insensibile davanti a tanta grazia. Poiché il marchese malvagio non era di certo, poteva davvero essere salvato.
E come? si disse lei. Nulla doveva esser dato in sacrificio a quel Qualcuno che da lassù ci ama? Un tributo che ponesse sotto buoni auspici l’impresa?
-Monsù, per il pranzo di quel giorno, fate in modo che ci sia pesce spada e arancini per tutta la gente di casa, fino all’ultimo sguattero-
Nel occhi del Monsù brillò qualcosa, una luce incerta tra ammirazione e commozione
-Sarà come disponete, Vostra Grazia- mormorò nel bellissimo inchino che le fece.
-Gerlando, fate recapitare queste lettere. Sono inviti a pranzo per gli amici del marchese. Per la spesa vi farete dare la lista dal monsù-
Durante i suoi vent’anni di servizio in quella casa il maggiordomo aveva visto molte cose strane, ma nessuna strana come quella. Un invito formale mentre il marchese stava male. Era molto peggio che vedere crollare le mura di Palermo sulle quali il palazzo era costruito: il mondo intero crollava. Qualcosa di questi pensieri si rese visibile sul viso di Gerlando e la marchesa lo rassicurò
-Non temete, non è oltraggio. E’ forse l’unico modo di far mangiare il marchese-
-Ma lui crede di essere morto e a stento beve un poco di brodo-
-Gli faremo credere che lo sono anche gli altri. Sarà il pranzo dei morti. Forse così tornerà a mangiare-
Gerlando esitava e sudava
-Perdonate marchesa. Potrebbe forse farsi subito, con persone diverse…-
Lei capì cosa intendeva Gerlando, e cioè che poteva fingere la stessa cosa lei e sedersi da morta quella sera stessa, iniziando così la cura da subito
-Il marchese in questa casa non ama nessuno. Con le persone che davvero ama e i cibi che predilige, entrambe le cose assieme, tornerà in lui la voglia di vivere. Non c’è altro. Favorite di preparare come apparecchiatura quella del sole radiante-
Gerlando s’inchinò con un sorriso. Non erano crollate le mura di Palermo o quelle della dimora di Sua Grazia, ma altri muri invisibili, ben più saldi e separanti, quelli intorno ai cuori e questo creava una gioia dilagante, come una finestra spalancata su un nuovo, bellissimo giorno. Per la prima volta la marchesa lo aveva ritenuto degno e lo aveva messo a parte dei suoi piani, lui Gerlando semplice maggiordomo. Quando si raddrizzò dall’inchino era più alto e la marchesa colse negli occhi di lui un baluginio nuovo, come un presagio di vittoria, la gioia che annunciava la via giusta.
Il sole. La vita che tornava prepotente. I piatti a foglie d’acanto gialle e verdi e i sottopiatti dorati. Caldo nel cuore e nelle viscere. Tutta la potenza, il calore e la bellezza della vita, la stessa che spingeva i fichi d’India a mettere radici nelle rocce, convogliata in una tavola che doveva resuscitare chi non voleva più vivere né morire.