Il pranzo dei morti, 5

Non basta-si disse la marchesa all’ora di pranzo del quarto giorno. Era davanti allo specchio della sua camera e si vedeva in un modo così nuovo che ne aveva paura. Senza busto il suo corpo dalle spalle all’inguine aveva la forma di un’arancia, rotonda e sugosa; più nessuna forma di vita sotto il seno, tutto un cerchio –così l’avevano trasformata i quattro figli e la sua propria golosità.

Eppure, non poteva dire a sé stessa di non piacersi. Semplicemente era nuova; nuovo il modo in cui le braccia un po’ gonfiate poggiavano sui fianchi e i riccioli scuri si disponevano sulle spalle grassocce; ma non questo le piaceva, quanto la vivacità dello sguardo che restava quello che era sempre stato, vivo e luccicante sopra la nuova massa. Aveva un’aria di Pasqua e Natale; e da lì, da quella linfa che l’aveva gonfiata, poteva e doveva trarre il modo di salvare il marchese.

Perché ciò che era stato fatto finora, ed era tanto, tantissimo, non bastava ancora. Il marchese, tranne qualche guizzo, ancora giaceva senza forze, pallido come la luna; e sempre lamentava fiocamente di essere morto, di non avere più il cuore e lo stomaco.

Che cosa amava davvero? Che cosa davvero faceva battere il cuore che lui lamentava inesistente? Che cosa fa battere il cuore di tutti e davvero tiene legati alla vita? L’amore e il cibo, si rispose, alzando le spalle: che altro c’è in fondo? Se si ama e si mangia va tutto bene; e va bene anche se si fa una sola di queste due cose. Lei stessa non viveva forse senza amore, non aveva forse vissuto da sempre senza amore, se si toglieva quello dei suoi quattro monelli? Ma quando da basso, dalla cucina, si levava il profumo della parmigiana era una carezza sul viso, e il profumo del fico d’India sbucciato un bacio dolce sulle labbra; e questo spiegava le sue rotondità e la sua latente felicità. C’era sempre qualcosa di bello nella vita.

Ma lui non mangiava e non guardava più Cettina, che lo visitava da sola, tutta agghindata e scollata si sedeva sul letto e lo carezzava, invano, il marchese non la sfiorava neppure; né cercava altre donne, una di quelle che rallegravano le festicciole del marchese con i suoi amici. Quanto al cibo, sembrava odiarlo. O era perché si trattava di brodini da malato? Forse il cibo, sì il cibo, ma quale e in che modo? Il cibo servito con i suoi amici, si rispose la marchesa con un sussulto di gioia, come se una fiaccola si fosse accesa nella sua mente.

Il principe Lancia, il conte d’ Ingalbes, il barone di Ripasaltas, con i quali aveva compiuto il viaggio nell’amata Parigi, vent’anni prima e con i quali organizzava feste e partite a faraone che duravano tutta la notte. A lei, in verità, non piacevano. Le sembravano vuoti e deboli. Inoltre, era gelosa di quel viaggio che, con chissà quali malie, li aveva staccati tutti e quattro dalla loro terra; e i loro discorsi, origliati col cuore in gola durante le notti di gioco, le erano sembrati tetri come le loro facce: tutto quel parlare di donne come se parlassero di bambole, senza amore, e tutta quella nostalgia per una terra lontana, dalla quale ogni cura e vantaggio personale li tenevano lontani, erano tristissimi.

Comunque lui li amava. E agli amici della gioventù avrebbe unito quel che c’è di più viscerale, ciò che lega alla vita con doppia fune, il cibo. Avrebbe dato un pranzo per loro, con tutte le pietanze predilette dal marchese.

Ma gli invitati avrebbero saputo avvincere il marchese con i loro discorsi e tenerlo a tavola e, approfittando della distrazione, indurlo a mangiare qualcosa? Per questo avrebbero dovuto fingersi morti, come lui; affratellati da un medesimo destino, avrebbero dovuto descrivere al marchese l’Aldilà e condividerlo con lui e inventarsi discorsi tali da essere verosimili e affascinanti al tempo stesso. Donna Cubitosa tremò: non erano i tipi da inventare nulla. Rivide il principe Lancia appoggiato al camino, col bel volto secco annoiato sotto la gran parrucca immacolata, intento a regolare l’orologio d’oro del panciotto: come asciugato dal mare che lambiva il suo palazzo costruito sulle antiche mura sopra il porto, accanto a quello del marchese di Carabas. Era sempre sopra tutto e tutti, come la polena di una nave. Tutti lo guardavano e nessuno lo raggiungeva. Poteva egli abbassarsi alla finzione che lei gli avrebbe chiesto?

E il conte d’Ingalbes, morbido e dai lineamenti pieni come frutti ben maturi, troppo gentile, con gli occhi sempre umidi pieni di desideri insoddisfatti; lui al quale tutto, donne, soldi, affari, gli si mostrava da lontano come il mare dalla sua dimora alta nel quartiere di Seralcadio, presso la Cattedrale; lui avrebbe saputo immaginare qualcosa oltre ai suoi personali desideri? Lui al quale la famiglia altro non aveva lasciato che un palazzo in rovina e quattro pezzi di terra e necessitava di tutto, cosicché  ogni suo pensiero ruotava intorno alle necessità quotidiane, come un carcerato intorno alla catena che lo avvince?

Né nutriva meno dubbi sul barone di Ripasaltas. Oh sì, quando la incontrava era un gentiluomo e compiva un perfetto baciamano, rialzandosi con un sorriso che la faceva sentire unica e ammirata; ma troppo perfetto era il suo vestiario e il suo contegno, e tutto quel che lei ricordava di quel signore era la sua ansia di essere statua: per essa agiva e lavorava, per scolpirsi in un marmo da piazza. Essere ricordato e immortalato nel marmo, questo voleva; per quali imprese, ancora esattamente nessuno sapeva. E mentre anch’egli attendeva gli atti eroici, si dilettava con bei ragazzi.

Costoro avrebbero dovuto inventarsi un Aldilà e renderlo credibile; e per fare questo essere concordi e vedere l’altra vita nello stesso modo, dimenticando o mettendo a tacere le proprie individualità, cosa difficilissima per loro, così gelosi del loro essere diversi da tutti; e quindi, se avessero superato questo primo ostacolo, tessere un legame tra il cibo che veniva offerto, e che doveva a tutti i costi esser mangiato dal marchese, e l’Aldilà. E che poteva esserci di più distante del cibo e dell’Aldilà? Persino i Greci, i luminosi Greci, credevano che gli dei fossero immortali perché sceglievano di nutrirsi solo del fumo dei sacrifici di animali davanti ai templi, mentre gli uomini erano mortali perché mangiavano la carne degli animali sacrificati. Il cibo escludeva l’aldilà; o per unirli ci voleva un prodigio d’intelligenza che lei non possedeva e che non avevano neppure i tre amici del marchese…

Ma lei sperava, dal basso dell’ignoranza che le veniva da un’infanzia trascorsa a Giarratana, tra rocce chiare e fichi d’India, che i Greci sbagliassero e che una qualche via tra la terra e il cielo, tra il cibo e la vita spirituale vi fosse e potesse salvare il marito.

E sperava e pregava che i tre nobiluomini avrebbero scorto tutto ciò e l’avrebbero saputo rendere evidente a pranzo, davanti agli arancini fumanti, al pesce spada profumato. A costoro donna Cubitosa avrebbe dovuto affidare la salvezza del marito, né poteva fare altrimenti, e si vedeva in gran pericolo per la pochezza di quei signori rispetto all’impresa richiesta; buoni a governare, a tessere intrighi sopraffini, a spendere e guadagnare denari, ma non a una faccenda delicata come quella. Tuttavia, costretta com’era, votò il suo piano a Santa Rosalia e preparò ogni cosa.

 

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