Il medico, don Fefè, era giunto con una gran maschera nera a becco d’uccello che gli copriva bocca e naso
-Che fate, come vi siete combinato?- donna Cubitosa era fuor di sé dalla rabbia –toglietevi quest’affare, qui non c’è la peste, solo la cattiveria! Il marchese non è malato, piuttosto vuole far ammalare gli altri di casa. Provvedete-
Era venuto don Saro, il sacerdote di casa, coi paramenti viola e un viso triste
-Che fate, non c’è nessuna estrema unzione da amministrare! C’è da risanare un cuore disperato-
Al capezzale del marchese medico e sacerdote non sapevano cosa e che dire. Vivo era vivo, si vedeva subito; ma non era lui. Possessione? Follia? E chi mai avrebbe osato dirlo a donna Cubitosa, così pronta all’ira?
Forse una benedizione solenne e una novena a San Michele Arcangelo; forse una purificazione del sangue con sanguisughe e un impiastro di semi di lino; forse un momentaneo scompiglio della mente, forse una tentazione troppo forte per l’indole delicata; un sottrarsi alla vita, non deliberato, ma subito; un sortilegio o un attacco infernale….la marchesa ascoltava con occhi di fuoco, battendo il ventaglio sul tavolo e poco curandosi della veste da camera non allacciata. Ascoltò tutto, poi balzò in piedi e gridò
-Fuori! Uscite subito!-
Un Gerlando vagamente soddisfatto accompagnò al portone il medico e don Saro, mentre le cameriere porgevano i sali alla marchesa che contro il camino aveva lanciato due vasi di porcellana, comprati a Parigi dal marito, e minacciava di prendere a schiaffoni chiunque volesse calmarla.
E che? Né Chiesa né scienza? Tradimento, non c’erano altre parole: tutti abbandonavano il marchese nell’ora più pericolosa, quella in cui il mondo cessa ogni fascino per noi e tuttavia si è vivi; prima che egli avesse l’eredità che gli spettava da sempre e che vedesse crescere i figli; nessuno comprendeva il caso particolare e proponevano invece le solite cose che si fanno per morti e moribondi. Desolata, si era abbandonata su un canapè presso la finestra e licenziato le cameriere. Solo quando fu sola, si era lasciata andare ai singhiozzi. Piangeva per sè stessa e per i figli e mentre piangeva, piano piano, si accorgeva che piangeva anche per quel marito così distante, così freddo. Si accorgeva che le faceva una pena infinita, ridotto a quattro cenci sotto un baldacchino e si figurava cosa dovesse passare in quel cuore che sapeva così meschino, il lento flusso di aridità e veleni vari; e si figurava pure cosa sarebbe stata la sua propria vita se egli fosse del tutto impazzito, lei derisa da tutti, i figli viziati, guardati con sospetto dagli altri per l’aver avuto un padre pazzo, spiati nelle loro eccentricità per cogliere i segni di una debolezza ereditaria. Ma soprattutto: l’aveva odiato dieci anni interi, e quest’odio le aveva riempito la vita; e quel colosso che aveva acceso l’odio, ridotto a nulla nel letto le faceva troppa pena, e voleva, ancora e sempre, saperlo annoiato nello studio, o intento al tavolo da gioco, ma saperlo vivo. Quindi l’avrebbe curato, e guarito.
E ora, ora che la luna si alzava sottile e salivano con lei dal porto:
i vociari della gente che andava per mare, e preparava le feluche, e le lampare;
i tonfi delle vele ammainate, delle funi arrotolate, accompagnati dai canti lenti dei marinai lontani da casa;
l’odore della minestra dai caseggiati della Misericordia, dove gli ostaggi barbareschi aspettavano il riscatto dei parenti per tornare a casa;
i rumori di stoviglie delle locande presso i moli, dove la gente di mare si sarebbe tra poco scaldata con un bicchiere di vino o una tazza di qualche brodo e già si distingueva l’aroma del pepe e dell’origano;
mentre tutta questa massa di desideri, sogni e nostalgie montava arrotolandosi come un’onda di vita dolorosa e piena di forza e di speranza, donna Cubitosa si sentiva oppressa. Tutti volevano vivere, lottavano e si dibattevano tra mille difficoltà di mare e di terra; tuti avevano un desiderio, uno scopo o una nostalgia; lei sola aveva accanto chi aveva tutto e non voleva niente, chi era felice e voleva sparire. Chi avrebbe mai creduto che in quelle sale albergasse tanta accidia, tanta inutile, colpevole tristezza? Sentiva il palazzo alle sue spalle gelido e malato, e sentiva anche in sè una grave colpa: quale arroganza! Chi era lei, per credere di poter guarire? Eppure aveva agito con grande sicurezza, come se qualcuno le dettasse cosa fare.
Aveva cacciato tutti, il prete, i medici, i parenti. Aveva trasferito metà della servitù e i bambini in campagna, a Giarratana. Con la morte nel cuore aveva stretto i quattro figlioletti, così riottosi a educazione e studio, la cui selvatichezza lei cercava di difendere Le bambinaie e le governanti avevano chiuso i bauli in lacrime perché, senza la madre adorata, i quattro marchesini sarebbero stati dei diavoli e avrebbero litigato ferocemente, si sarebbero arrampicati sui carrubbi, e camminato nelle canale d’irrigazione; e poi, la sera avrebbero frignato cercando la marchesa, che prima della buonanotte li benediceva e raccontava fiabe. In capo a un giorno solo, al mattino presto una lunga fila di carrozze e carri aveva preso il viale d’ingresso e si sparì all’orizzonte.
La marchesa aveva ringraziato Dio che il palazzo fosse così defilato dal centro di Palermo e a ridosso delle mura presso Marina: quel che i suoi antenati avevano voluto per essere più vicini ai loro feudi, adesso tornava utile per evitare chiacchiere e spiegazioni nel momento più delicato. Solo pochi popolani avevano visto le carrozze uscire. I nobili parenti e amici avrebbero saputo, solo a cose fatte, che i marchesini avevano bisogno di un cambiamento d’aria.
Mentre guardava le carrozze avviarsi traballando nella polvere, si era detta che adesso iniziava per lei la battaglia. La più dura, contro un nemico invisibile agli stessi medici. Si era ben armata. Aveva tenuto con sé Gerlando e Totò, addetti alla persona del marchese, Cettina, due cameriere fidatissime per lei, e tutto il personale di cucina, compreso il monsù, che costava quanto l’intera rendita di Geraci ed era il migliore di Palermo.
Perché la marchesa aveva un piano: se da un lato la città doveva sapere che mezza casa era a Giarratana perché i marchesini avevano bisogno d’aria, dall’altro doveva anche sapere che tutto nel palazzo continuava come prima. Era impossibile che non si diffondesse la nuova della malattia del marchese, ma il danno poteva essere limitato, e le voci fatte dimenticare o smentite, simulando la continuazione della vita solita.
-Totò! Aprite tutte le finestre verso la città! Gerlando! Mandate al mercato gli sguatteri!-
Lei sedette presso il marito e provò a fargli bere del latte col miele. Lui era ancora più pallido e senza forze
-Non mangia da due giorni, marchesa- Gerlando si inchinò.
-Non ho più lo stomaco- mormorò il malato con una voce che sembrava venire da sotto terra.
Tre cuscini dietro il capo e la marchese riuscì da infilargli in bocca quattro cucchiate di latte. Col busto però sudava. Andò in camera, se lo fece togliere dalla cameriera.
-Madame…-mormorava la ragazza stupita, forse un po’ indignata.
-Non mi vede nessuno, Nedda. Devo stare libera. Devo salvare il marchese e sudando non posso salvare nessuno-
Senza busto ritrovò la pazienza di far ingollare al malato tutta la tazza di latte, a cucchiaiate. Lui per la prima volta dall’inizio del morbo la guardò, tra stupito e spaventato, mentre un po’ di colore gli tornava sulle guance. E così nei giorni successivi fu lei a nutrirlo di brodo densissimo, brodo della carne migliore con tutte le spezie, che aveva bollito sei ore, tanto che il mestolo quasi vi stava in piedi. Quando non lo imboccava, si metteva alla spinetta che Gerlando aveva trasportato nella camera del marchese e suonava. Cercava di parlargli così, con i brodi e la musica suonata a ritmo vivace, che lo scuotesse da quell’accidia perniciosissima, cercava e non riusciva. Il marchese restava a letto, muto e sempre più inconsistente sotto le coltri.