Il pranzo dei morti, 3

Com’è facile dimenticare, com’è facile perdonare, si diceva adesso donna Cubitosa, e veder sparire tutto quanto ci ha roso di dolore in vortice di vento! Davvero una piuma la vita umana!

Davanti a ciò che del marito restava nel gran letto, aveva dimenticato tutto, quando l’aveva sorpreso che brancicava il seno di una sguattera nella dispensa, quando alla nascita del primo figlio lui se ne restava dall’amico Lancia di Grua a giocare a faraone, o quando, durante la mietitura si assentava per ricevere il sarto. Aveva dimenticato in un solo istante tutto ciò che l’aveva staccata da lui e si era perdonata pure la gioia pura che aveva provato credendo che fosse morto, dieci minuti prima. Solo la pietà era restata, e l’indignazione. E poi, lei odiava veder morire. Già aveva perduto fratello e sorella e da allora aveva deciso che non avrebbe mai visto morire più nessuno.

Cosa l’aveva aiutata? Cosa le aveva fatto superare paura e dolore?

Non sapeva bene, era stata come una mano che la spingesse verso il letto, forse la forza che le veniva dai fichi d’India, capaci di crescere anche nelle rocce in riva al mare e di generare frutti rossi come la vita, o dall’aver giocato con i figli dei contadini a Giarratana. La mano di lui era gelida e intanto lei impartiva ordini a Gerlando

-Delle pezze fredde, presto! E l’acqua della regina d’Ungheria! E una camicia di bucato! E il vino di Ximenes, quello della botte piccola-

In men che non si dica Cettina poneva pezze fredde sulla fronte del marchese, Totò gli massaggiava i piedi con l’acqua miracolosa e Gerlando cercava di fargli bere sorsi del vino di Ximenes. Il sedicente morto restava immobile, senza fiatare. Ma tutto era tornato nella penombra quando il marchese aveva mormorato

-Sono morto. Seppellitemi – e aveva chiuso gli occhi.

-Lasciatemi sola con lui- aveva comandato donna Cubitosa. A testa bassa, tristi e grigi, tutti erano spariti oltre la porta. Appena sola, la marchesa, consapevole della parrucca ancora per traverso e della veste da camera semiaperta sul seno enorme, aveva vinto l’imbarazzo e parlato come non aveva mai parlato prima

-Non potete permettervi di morire. Non ancora. Comodo, sarebbe comodo-

si ricordò che il marchese non aveva ancora ereditato dal fratello del padre, vedovo e senza figli, e ciò la spinse a parole ancora più dure

-Non avete mai guardato me, e questo poco conta. Contava un tempo, ora non più grazie a Dio. Ma non avete mai guardato i vostri figli. Crescono e voi non ne sapete nulla, chiuso nel vostro studio tra libri che non leggete e non amate, oppure con i vostri amici e il marsala a tavoli di faraone. Anzi, a bere champagne che fate venire a costi altissimi, perché il marsala è troppo poco per voi. Sprezzante di chi è diverso da voi, di chi non s’intende di tappezzerie francesi e stucchi dorati, passate il tempo a far sentire gli altri sciocchi e incolti. E dopo averci inflitto questo, adesso pretendete d’esser morto. L’ultimo dispetto, il guaio estremo, così pensate. E io invece vi dico che morto siete sempre stato e sol ora ve ne accorgete; che dunque è meglio finire con questa farsa e che non vi permetterò di tediarci a lungo con quella bella pensata. Vincerò io-

Il marchese non aveva avuto alcuna reazione: non si era voltato, nè sussultato, nè mutato l’espressione del viso grigio. Sembrava davvero morto. Con una voce sottile come un fil di fumo, senza muovere quasi le labbra, gli occhi fissi al soffitto aveva mormorato

-Non ho più il cuore-

-Non l’avete mai avuto!-

-Né i polmoni. Non respiro, non vivo. Sono morto. E dannato- sempre la voce sottile, appena udibile.

-Siete vivo!-la marchesa si era slanciata sul letto del marito, strappando via coltri e coperte e aveva gridato parole che ora trovava sciocche, e gettate al vento

–Se parlate siete vivo, lo capite? Non avete cuore, è vero, ma solo per gli affetti, per tutto il resto funziona egregiamente e ci seppellirete tutti. Siete vivo. E’ bello vivere, cessate questo stato e ve lo mostrerò. Avete, abbiamo tutto, in questa bella terra: figli denaro dimore e buon gusto e ciò che è bello al mondo ci è vicino, vicinissimo. Vivere è splendido. Dimenticate, perdonate tutto: che io sia diventata grassa, che Cicciuzzo vi somigli troppo per indole, che siamo lontani dalla Francia. Dimenticate e vivete. Io vi guarirò-

e quindi, mutando tono e alzando la voce –e voi che siete costì a origliare, venite, chiamate subito don Fefè e don Saretto!-

Un rapidissimo scalpiccio aveva seguito quest’ultimo grido.

Un pensiero riguardo “Il pranzo dei morti, 3

  1. Complimenti! Aspetto con impazienza il seguito. Mi ricorda, nelle atmosfere, Il marchese di Roccaverdina (che però ho letto diverso tempo fa, quindi magari dico una scemenza). Il marchese di Carabas invece viene dal Gatto con gli Stivali, o sbaglio?

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