-Chi diavolo era la zia Teta?-
Questa è la domanda ricorrente nelle nostre sere d’agosto quando ci incontriamo con tutti i cugini in Umbria.
Ricordiamo vagamente una donna anziana e alta, su per i monti di Costacciaro, sullo sfondo di una vecchia cascina traboccante di polli e granaglie; ma quali fossero i rapporti di parentela che la legavano ai miei genitori e ai miei innumerevoli zii, restano un mistero. Ma a casa nostra i rapporti con cugini anche di sesto e settimo grado erano un legame indissolubile, pari alla forza che tiene gli elettroni intorno al nucleo.
-Siamo parenti!- ci veniva tuonato dagli adulti –Ci sono legami di sangue!-
Gli adulti erano altissimi e queste parole suonavano come leggi divine. Per cui nessuno osava lamentarsi quando si andava a trovare la zia Teta. In fondo non ve ne era motivo. Superato il momento degli abbracci e dei complimenti su come eravamo cresciuti, si arrivava alla merenda. Non ci sono parole per descrivere le torte salate e le dolci. Non si pensava nemmeno a giocare: si mangiava e basta. E quando arrivava la sera e i grilli cantavano, le lucciole splendevano sul grano di giugno, i campi esalavano l’odore di erba e fango, nessuno di quelli che eravamo bambini allora ha pensato a farsi dare e a scrivere le ricette di quelle torte. La realtà allora era eterna.
Adesso le vorrei quelle ricette, vorrei tornare a quei tempi con un sapore, come Proust con la madaleine, e non potrò mai più. E per questo scrivo adesso quelle superstiti, quelle delle altre grandi donne della mia famiglia, la mia nonna Anna, la zia Esterina, la nonna di Giuseppe, marito di mia cugina, e mia cugina Vittoria. Mie no, non ne ho. Non segreti culinari che non vengano da altre più grandi di me in tutti i sensi.